Serazzi racconta il vero Sud come non lo avete mai letto

Fuor di polemica, ma per chi è rimasto a Verga e al Verismo, al Gattopardo e magari alle saghe famigliari del Sud, consiglio una bella rinfrescata con Sonia Serazzi. I suoi Non c'è niente a Simbari Crichi e Il cielo comincia dal basso sono romanzi sulla vita, il bene, l'amore, la morte, narrati senza alcun imbroglio. A mio parere risulteranno essere una bella scoperta letteraria per tutti coloro che non la conoscono. Certo, l'autrice ci mette del suo a non apparire troppo, per non essere up to date, alla moda, sul pezzo, combattiva per reclamare asterischi o schwa nei suoi romanzi eccetera. Eppure vale la pena fare una ricerca per conoscerla. Solitaria penso lo sia per costituzione genetica. Però, però. Non dico avere un sito o una pagina Facebook, per carità. Ma almeno farsi trovare. Invece no. E per me questo non può che essere un valore aggiunto, ma per il resto del mondo potrebbe sembrare intollerabile. Essere una scrittrice outsider, essere una scrittrice appartata, senza nessuna candidatura a premi, mi fa ben sperare per un mondo migliore, se capite cosa intendo. Dalla sua casa editrice mi hanno detto che l'hanno invitata più volte a quei convegni di sole scrittrici in cui si parla di scrittura al femminile. Ha gentilmente declinato l'invito. La adoro. Solo la mia indole da cane da tartufo poteva andare a beccare quella manciata di ruvida spiritualità rappresentata dalle storie che racconta. Un mio vecchio coinquilino di Soverato, a Ferrara mi regalò nel 2005 Non c'è niente a Simbari Crichi, edito da Iride, e lo tenni lì a covare per anni. Ma è necessario partire dall'inizio: sono storie di un Sud congegnali a un lettore che non si fa abbindolare da vicende arcaiche e traditrici, non rimane affascinato da ricchi baroni papalini, rapporti amorosi malsani, prefetti e prefetesse, appuntati e marescialli, pensiero magico e compagnia cantante. No, niente di tutto questo. In verità aristocratici ce ne sono anche nel suo Il cielo comincia dal basso, ma sono la Baronessa di Babbumannu, o il Visconte di Verolea; appellativi ironici che la narratrice della storia affibbia alla sua famiglia proletaria. Padre operaio del gas in pensione, madre casalinga. I titoli nobiliari sono uno scherzo di famiglia. Sonia Serazzi vive in un piccolo paese della provincia calabrese, forse di San Vito sullo Ionio, forse no, e per uno come me che è andato in vacanza mesi e mesi a Sibari e Schiavonea, non è sfuggito il tentativo dell'autrice di stare lontana da stereotipi. Non per nulla infatti le sue storie mi ricordano i diari di Teresa di Lisieaux, più che i Florio o le Mennulare di varia specie, e nelle loro narrazioni di una quotidianità disarmante ci trovo una tensione emotiva, ascetica, drammatica che aleggiano in una prosa attraente: «Una notte dopo l'altra, il padre di Domenico si persuase che la morte era masticare il nulla per un poco, tanto un filo di pienezza segreta durava colando in bocca, ed era latte senza fine». Capite che per una narrazione del genere non sono necessarie 800 pagine di un feuilleton o una trilogia cartonata? La sua è prosa lenta, in cui si raccontano vite lente. Io me le immagino queste persone raccontate dall'autrice. Potrebbero essere realmente esistite, anche se la sua è forza evocativa dell'immaginazione. Trascendono le epoche. Possono essere pellegrini medievali o vecchie zie in casa di riposo, ma per loro poco importa essere del primo, secondo o terzo millennio, perché avrebbero sempre le loro abitudini lontane dall'apparenza, e tutte le loro esistenze sarebbero esistenze rituali. Ecco: tutto quel che racconta la Serazzi sembra avere la forza di una ritualità. Penso che l'autrice nutra per questi personaggi un'empatia particolare, le senta vicine. Io voglio conoscere questo Sud, da Napoli in giù. Lo voglio conoscere così come lo racconta l'autrice, e voglio stare lontano dalle Accabadore, dalle Amurusanze e dalle Arminute, se non s'era capito.

Funziona tutto bene nel Sud raccontato dalla Serazzi, perché è tutto umano, e come lettore sospendo volontariamente l'incredulità perché i suoi personaggi non vengono analizzati sotto il profilo del PIL o della ricchezza procapite, le terre in cui ambienta le storie non sono state sottoposte a snervanti classifiche di vivibilità. No, qui non esiste la città più ricca del Paese, la miglior qualità della vita. L'efficienza, per fortuna, non è un parametro indispensabile nei contenuti letterari dell'autrice. Qui esistono gli uomini e le donne, con la loro forza e il loro incanto. L'autrice diventa così testimone di esistenze ordinarie che tentano di essere dignitose, scrive di loro e della loro capacità di guardare al cielo a partire dal basso, come dice il titolo del suo più recente libro, e tutto si anima miracolosamente. Riesce a raccontare personaggi dallo sguardo disincantato, ma decisi a vivere al Sud, come Rosa Sirace, la protagonista, oppure come i ragazzi del racconto Fortunato Sirianni tratto da Non c'è niente a Simbari Crichi, nel quale al sabato sera dividono le spese della benzina per scendere a mare con la Fiat 127 del padre dopo aver girato a vanvera per il paese. Sognano di partire, come tutti i ragazzi del mondo. Ma non vogliono fuggire per la disperazione, non si autoescludono. L'hanno già fatto i padri. Sono andati in Svizzera e hanno impiegato i soldi guadagnati per costruire casa a Simbari Crichi per andarci a morire. Qualcuno mi ha detto che quando uscì questa raccolta di racconti un sindaco calabrese volle fare ritirare il libro dal mercato. Diceva che l'autrice aveva raccontato fatti ed episodi del suo paese. Le copie dovevano andare al macero. Naturalmente Sonia Serazzi non aveva raccontato nulla di vero, ma tutto era verosimile, per cui qualcuno, laggiù, si era sentito chiamato in causa pur non c'entrando niente. Doveva pur significare qualcosa questo rispecchiamento, perché in effetti leggendo il libro, recentemente ristampato da Rubbettino, Simbari Crichi, paese inventato di sana pianta, può ricordare certo profondo Veneto, o certa Lombardia di confine, in cui cambiano poco le indolenze, le beffe, i segreti, i ricordi dei personaggi costruiti dall'autrice.

In questi giorni mi è capitato di ritrovare delle conversazioni via e-mail misteriosamente salvate dentro una chiavetta da un giga senza tappino ma intonsa. Era in un portagioie tarlato a cui mancava un piedino. Avevo scritto una mail alla Serazzi in cui le chiedevo come era nata la sua amicizia con il teologo Sergio Quinzio. L'autrice non aveva una mail così non ebbi risposta.

In compenso ad agosto sono riuscito a parlare con lei al telefono. Le sue parole saturano l'aria come il fumo di un incendio. Ha ripetuto spesso: «Il fuori come il dentro. Sennò meglio il silenzio». E c'ha ragione. Meglio la sincerità.

Prima dicevo che c'è tanta robba tra i poeti terremotati, tra gli scrittori faulknerizzati, le scrittrici favolistiche piene di miracoli, magie, intrugli. Un sud magico che non esiste più dai tempi del pianto rituale raccontato da Ernesto de Martino. Poi c'è la Serazzi.

È anche vero che chi scrive romanzi prova un certo piacere a leggere altri autori e accorgersi delle stonature, di lessici senza diapason, sintassi stridenti, ma nei libri della Serazzi nessuna scordatura, nessuna stonatura. E nemmeno l'ombra di un diapason, perché la tipa ha orecchio assoluto.

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