Il senso di Giolitti per lo Stato Al servizio del popolo sovrano

Dalle radici risorgimentali alla separazione dei poteri al rafforzamento del governo. Una lezione sempre valida

Il senso di Giolitti per lo Stato Al servizio del popolo sovrano

Il ponderoso volume di Aldo A. Mola, Giolitti. Il senso dello Stato (Rusconi, pagg. 656, euro 24) non è soltanto la ricostruzione storica, documentata e accuratissima, della vita dei tempi, dell'opera di governo, dello statista che diede il nome al decennio più felice dello Stato unitario: è anche un monumento al Piemonte - e a quel Piemonte del Piemonte che è la provincia di Cuneo - di cui Giolitti incarnò in modo esemplare le antiche e solide virtù. «Il solo statista, al tempo stesso subalpino e italiano, degno di stare a fianco di Camillo Cavour», lo giudicò Luigi Firpo in un saggio esemplare del 1983.

Mola non solo ha analizzato, con la passione dello storico e l'orgoglio del conterraneo, tutta la carriera di Giolitti - dal funzionario e magistrato vivamente apprezzato e richiesto da non pochi statisti dell'Italia umbertina al ministro e poi, per cinque volte, al presidente del Consiglio - ma ha anche studiato a fondo verbali e resoconti del suo impegno nelle varie sedi in cui svolse la sua alacre attività, dal Consiglio Provinciale di Cuneo al Parlamento, al Governo. Le famiglie paterna e materna di Giolitti erano «la borghesia che saldò la dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 francese con il Risorgimento italiano». Fu Quintino Sella il suo modello: in lui, scrive Mola, «aveva trovato la virtù della sua gente - i Plochiù, i suoi stessi antenati - vale a dire il senso profondo del dovere verso lo Stato, quale unico strumento per accelerare il progresso della popolazione, schermo tra la corona e gli appetiti particolari, fossero di notabili, di potentati affaristici o dello stesso sovrano (...). Aveva inoltre speciale ammirazione per la Francia dei diritti dell'uomo e del cittadino. Essi erano nel sangue dei piemontesi non immemori della grande stagione napoleonica, che aveva consentito loro di pensare in europeo».

Un libro di oltre 600 pagine non è fatto per incoraggiare i lettori frettolosi del nostro tempo, ma va detto subito a quanti volessero accingersi a una fatica, peraltro, ampiamente ricompensata, che Mola ha posto in appendice un'utile rassegna dei «ministeri e ministri giolittiani» nonché una cronologia sintetica della vita di Giolitti che consentono di non smarrire il filo di una narrazione ricchissima di eventi, di analisi politiche e sociali, di commenti. Mi sembra notevole, in particolare, l'attenzione dedicata agli aspetti istituzionali dell'età giolittiana, un tempo di prosa «che valeva più di carmi e sonetti perché era tutt'uno con l'incivilimento vero, quello assicurato da rete ferroviaria e stradale, ospedali e scuole, uffici giudiziari e finanziari, insediamenti produttivi e affidabilità di banche, casse di risparmio, cooperative di credito popolare».

Giustamente, così, viene sottolineata la svolta del regio decreto del 14 novembre 1901 che segnò «il più massiccio trasferimento di potere dalla Corona all'esecutivo e ne elevò il presidente a vero e proprio capo di governo». I suoi avversari videro nel rafforzamento dell'esecutivo (a scapito delle prerogative regie) ciò che consentì a Giolitti di farsi dittatore parlamentare ma, in realtà, era l'altissimo senso dello Stato a fargli prendere sul serio, come si dice oggi, una divisione dei poteri che vedeva, pur sempre, nel legislativo il simbolo della legittimità politica in quanto espressione della volontà del popolo sovrano. Oggi lo «statalismo» di Giolitti può sembrare un avanzo del passato, ma quando si leggono le parole da lui pronunciate nel 1908, dirimendo, col suo solito buon senso, la controversia tra laicisti e tradizionalisti - «Al disopra poi dei clericali, degli anticlericali e dei liberali vi è lo Stato, cioè l'autorità suprema in tutti i rapporti della vita politica e della vita civile, perché nessuna autorità può stare al di sopra dello Stato. Questo è il fondamento del nostro diritto pubblico» - o il discorso del 1920 in cui manifestava la sua contrarietà alla nascita di un sindacato dei magistrati - «la magistratura è uno dei poteri dello Stato: come è possibile che uno dei poteri dello Stato si accampi come rappresentante di una classe in lotta contro le altre classi? La magistratura è la garanzia di tutte le classi, non può diventare una parte belligerante contro le altre classi» - il pensiero non può non andare alla concezione «progressista» del diritto pubblico, delle funzioni della magistratura, del ruolo dei corpi intermedi e al degrado della vita civile da essa causato da mezzo secolo in qua.

Sono molte le pagine in cui Mola offre interpretazioni della storia italiana, dall'ultimo Ottocento al fascismo, che mi sento di condividere, anche quando si tratta di questioni spinose come il «fiancheggiamento» dei liberali al fascismo o la mancata proclamazione dello stato d'assedio da parte di Vittorio Emanuele III - «un sovrano rigorosamente e coerentemente statutario» - o la non adesione di Giolitti al «manifesto degli intellettuali antifascisti». Inoltre va dato atto a Mola che non minimizza gli errori politici anche gravi commessi dal suo eroe. Sennonché, come capita quando l'analisi storica rischia di sconfinare nell'apologia, egli non va, per così dire, fino in fondo. Giolitti, ad esempio, peccò di leggerezza nel proporre il suffragio universale «senza valutarne le conseguenze», ma tale leggerezza non è in connessione con l'incomprensione della «democrazia dei contemporanei» che trova nei partiti i suoi contrafforti?

Anche l'elogio dell'antintellettualismo di Giolitti suscita qualche perplessità. «A Giolitti non importava affatto che i sedicenti intellettuali vociassero. Esigeva che funzionasse la macchina dello stato: una miriade di scienziati, funzionari e impiegati, amministratori locali e liberi professionisti, orgogliosi di prestare una parte della propria opera e dei propri beni per migliorare le condizioni della popolazione». I poteri che strutturano il mondo umano, però, non sono soltanto quello politico (i bellatores) e quello economico (i mercatores): c'è anche quello culturale (gli oratores) che è una variabile indipendente con cui si devono fare i conti. In Italia, lo spazio di questo potere era appannaggio delle classi medie le cui istanze ideali non potevano essere ridotte a quelle di un «coacervo di ambizioni insoddisfatte», di «illusioni sbagliate», «impasto policefalo di vocianesimo, prezzolinismo, futurismo», «fogna in cui andò a sboccare tutto l'aspetto arcaico, arretrato, provinciale e schizofrenico della sedicente cultura italiana di allora», come scrisse Alberto Asor Rosa per spiegare l'interventismo e Mola, uno storico certo lontano dal mondo di Asor Rosa, ripete.

Sarà stato un errore fatale il radioso maggio, ma uno studioso non prevenuto ha il dovere di spiegare perché il meglio della cultura del tempo (da Luigi Einaudi a Vilfredo Pareto, da Francesco Saverio Nitti a Giustino Fortunato, da Gaetano Salvemini a Giuseppe Prezzolini, da Leonida Bissolati a Luigi Sturzo, da Luigi Federzoni a Filippo Corridoni) ritenne che l'Italia non potesse restare al di fuori del gran cimento. Spiegarlo con la retorica, con l'ubriacatura ideologica, con l'insipienza è come spiegare oggi i voti presi da Matteo Salvini con il rincretinimento degli elettori italiani.

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