"Come si passa da immondezzaro a divo? Sognando..."

Il migliore attore di Cannes: "Vivevo nelle baracche, Bonolis mi ha cambiato la vita"

"Come si passa da immondezzaro a divo? Sognando..."

Sul cellulare ha una foto accanto a Leonardo DiCaprio e a Martin Scorsese.

Dove è stata scattata?

«Meglio, chi l'ha scattata?».

Chi?

«Daniel Day Lewis sul set di Gangs of New York dove ho fatto l'attore e la controfigura. Ma io mica lo sapevo chi fosse, non ero mai andato al cinema...».

Per un grande attore, Day Lewis, che ha annunciato di lasciare il mondo del cinema, ecco un piccolo attore, Marcello Fonte che, con forza e tenacia, quel mondo, attraverso tanti ruoli minori ma nella migliore tradizione dei caratteristi italiani, l'ha conquistato l'altra sera al festival di Cannes quando, dalle mani di Roberto Benigni che urlava «Marcello, Marcello!» come un novello Mastroianni, ha ricevuto la Palma come migliore attore dalla giuria presieduta da Cate Blanchett, per Dogman di Matteo Garrone. Il capolavoro, da non perdere in questi giorni al cinema, del regista romano che, ironia della sorte, dodici anni fa aveva mandato la prima stesura del film, dal titolo L'amico dell'uomo, proprio a Benigni che non lo volle fare.

Da dove viene Marcello Fonte?

«Vengo da una famiglia povera calabrese, vivevamo nelle baracche che sono le stesse in cui, con Paolo Tripodi due anni fa, ho girato il film un po' autobiografico Asino vola che non è uscito ma è andato ai festival di Locarno, Toronto... Mio padre s'è dovuto arrangiare per sfamare dodici bocche, tra cui quelle di noi sette fratelli. A Melito di Porto Salvo tutti mi conoscevano come l'immondezzaro perché, insieme al mio cane, cercavo nella discarica le cose belle che Dio mi faceva trovare».

Che scuole ha fatto?

«Ho la terza media, dopo mi hanno detto: Vai a lavorare!. Ma io di nascosto e con i miei risparmi ho iniziato a studiare solfeggio per non perdere il mio più caro amico che era entrato nella banda del paese. Poi però, al momento di comprare lo strumento, tutto è crollato perché non me lo potevo permettere».

Poi è arrivato a Roma.

«Sì grazie a mio fratello che è l'unico che ha studiato, ha fatto l'università. Si occupava d'arte e quando tornava in paese mi conquistava con le belle parole così a 17 anni l'ho seguito. A Roma sono rinato, ho cambiato religione abbracciando il buddismo, ho scoperto l'arte e, incredibilmente, Bonolis».

In che senso?

«Da piccolo guardavo Bim Bum Bam e ora, con un gruppo teatrale, eravamo finiti in Ciao Darwin. A spasso nel tempo. Mi sembrava un punto di arrivo ma ho capito che fare l'attore è tutta un'altra cosa, è una responsabilità».

Lei ha partecipato attivamente alle occupazioni più significative a Roma, il Teatro Valle, il Cinema Palazzo

«È una questione karmica. Io sono nato in un'occupazione. Mio padre stava occupando un pezzo di terra e mia madre s'è sentita male. Non sapevano che era incinta, pensavano che a 50 anni fosse in menopausa».

C'è chi è contrario alle occupazioni anche se l'impressione è che a Roma gli spazi culturali vadano conquistati.

«Dipende anche dai contesti. Al Cinema Palazzo, che doveva diventare un casinò, puntiamo su un progetto artistico di qualità. È venuto anche il figlio del proprietario e ha cambiato idea. Non è il centro sociale classico dove si bivacca».

Lì l'ha scoperta Garrone.

«Un giorno, due anni e mezzo fa, nella compagnia teatrale di ex detenuti che ospitavamo, un attore è andato in bagno e non è più tornato per un aneurisma. Per riuscire a fare lo spettacolo sono subentrato io che avevo seguito tutte le prove e conoscevo il copione».

Ha dovuto fare molti provini?

«Due, al terzo abbiamo già iniziato a parlare del film. Direi che ci siamo subito riconosciuti».

Nella caratterizzazione del suo personaggio in Dogman c'è quel modo, tutto suo, di pronunciare la parola «amooore» che è diventato già un tormentone.

«È una cosa mia come tante altre del film che il regista mi ha lasciato libero di portare, l'ho sempre detta perché penso che la gente abbia bisogno di amore e di sentirselo dire. Viviamo in un periodo difficile, molti sono frustrati, tutti vanno di corsa, c'è bisogno del contatto tra le persone».

Nel film, meglio sottolinearlo, non c'è alcuna violenza sui cani e la storia di cronaca del Canaro è un ricordo lontano ma, secondo lei, cosa voleva racconta veramente Garrone?

«Di un padre di famiglia che protegge le cose che ama, come la figlia, in una condizione in cui non sa come fare di fronte alle umiliazioni. Ha la sua dignità e vuole essere riconosciuto come un essere umano. Per quanto riguarda i cani voglio che si sappia che dormivano accanto a me nell'albergo a 4 stelle, serviti e riveriti».

E alla fine, ma è solo l'inizio, il premio come miglior attore in uno dei festival più importanti del mondo. Ora che sono trascorse alcune ore, qual è la sua sensazione?

«Vorrei che fosse un premio per

tutte le persone che si sono fidate e hanno creduto in me. E poi che fosse per tutti i giovani che stanno sognando di fare il cinema. Perché, se uno crede fermamente nei sogni, che sono pure gratis, alla fine si avverano».

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