Soltanto nel calcio la classe è operaia E va in Paradiso senza andare al Mondiale

Da qualche anno nel calcio vanno molto di moda gli «esterni d'attacco con il piede invertito»

Soltanto nel calcio la classe è operaia E va in Paradiso senza andare al Mondiale

Da qualche anno nel calcio vanno molto di moda gli «esterni d'attacco con il piede invertito». Per rassicurare le signore alla visione e all'ascolto diciamo che non si tratta di poveri ragazzi affetti da gravi malformazioni, bensì di ricchi ragazzi in ottima salute che rappresentano l'evoluzione (o l'involuzione) del football dopo la «morte» delle ali (non essendoci qui spazio sufficiente per spiegare in dettaglio alle signore che cos'erano le ali, accenniamo soltanto alla qualità primaria, la velocità, che permetteva loro quasi di volare radenti sul campo). E siccome calcio e politica, non soltanto da qualche anno, sono legati a doppio filo, nel senso che la politica, tramite l'economia che la sostiene, tende sempre a mettere il cappello sul calcio, ecco che anche nel dibattito socio-politico vanno molto di moda gli «esterni d'attacco con il piede invertito». Cioè gli attaccanti «destri» si collocano a sinistra e i «sinistri» a destra. In tal modo, argomentano pedissequamente i commentatori tv, «possono accentrarsi per andare al tiro con il piede forte».

Un chiaro esempio di «sinistro» che sta a destra alla maniera, in senso figurato, del vangoghiano pennellatore olandese Arjen Robben o del sincopato ballerino spagnolo Suso, per capirci, è il francese Jean-Claude Michéa. Mancino per nascita, natura e formazione, questo intellettuale classe 1950 è infatti «sinistro» in quanto non sopporta il capitalismo, nemmeno nella sua versione soft, liberale, però sta a destra, una destra che oggi lo porta in palmo di mano poiché rifugge da quella che lui chiama «religione del progresso».

Michéa ha indubbiamente un buon piede che ne sostiene sia la solida dialettica, sia l'affilata vis polemica, «un piede educato», direbbe Lele Adani, il logorroico secchione tecnico-tattico dell'accademia di Sky. Del resto lo ha esercitato «tre volte alla settimana per oltre un quarto di secolo», dice, al Pierre Rouge di Montpellier, la sua città. L'appello dell'ottobre 2013 in difesa del suo stadio del cuore, «minacciato dai progetti immobiliari dell'amministrazione comunale» è incluso nella raccolta di testi calcistici Il goal più bello è stato un passaggio (Neri Pozza, pagg. 139, euro 12,50, traduzione di Roberto Boi). Il titolo ha il tono tipico del nostalgismo romanticheggiante di stampo sudamericano, quello dell'argentino Osvaldo Soriano e dell'uruguagio Eduardo Galeano, in particolare del secondo, maestro e nume tutelare del Nostro che lo omaggia, in chiusura del suo libretto, di una sobria antologia. Ma è soprattutto una citazione di Éric Cantona, l'ex calciatore marsigliese tutto genio e irascibilità da tempo riciclatosi come attore, idolo dei tifosi del Manchester United. Segno che al calciofilo Michéa, anche per motivi di anagrafe, il calcio del Duemila ormai piace assai poco.

Non gli piace l'industria mediatica che se ne è impossessata, né la quotazione in Borsa delle società, né l'effetto devastante della legge Bosman che ha trasformato i calciatori in multinazionali. Lui ama il calcio che Antonio Gramsci definiva «regno della lealtà umana esercitata all'aria aperta». Da bravo storico, fa notare che furono i deliri di due regimi uguali e opposti, quello nazista e quello stalinista, a stroncare prima l'Austria anni Trenta, il Wunderteam in cui brillava il talento di Matthias Sindelar, vittima dell'Anschluss nel '39, e poi l'Ungheria di Gusztáv Sebes, di fatto azzerata dopo la rivolta del '56. Gli piace, al contrario e come da titolo, il calcio che pone la trama dei passaggi, quindi la collaborazione fra i componenti del collettivo, sopra l'azione estemporanea del giocatore-imprenditore. Ma anche Michéa ha dei... passaggi a vuoto, come quando distingue il catenaccio buono, applicato dalle piccole squadre e nato con l'austriaco Karl Rappan, da quello cattivo di Helenio Herrera, emanazione del capitalismo milanese sponda Inter degli anni Sessanta, passando sopra al fatto che in campo si è (si dovrebbe essere) tutti uguali di fronte al giudizio estetico o utilitaristico dei tifosi. O come quando vede nell'orizzonte del guardiolismo l'isola felice del pallone, dimenticando che, per stessa ammissione dell'abilissimo e paraculissimo Pep di Catalogna, nel frattempo volato in Inghilterra a suon di milioni di sterline, le cose sono molto, ma molto più facili quando dalla tua parte hai un Lionel Messi. Che è il prezzo (e che prezzo!) da pagare per difendere, e rilanciare, l'indipendenza del Barça catalano dal monarchico Real Madrid.

Forse la verità sta nel mezzo, dove convergono i

destri di sinistra e i sinistri di destra: il calcio era, è e sarà l'unica sintesi possibile fra aristocrazia e proletariato, fra Pirlo e Gattuso. La classe è operaia, e può andare in paradiso anche senza andare al Mondiale.

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