Il libro è spesso, accartocciato dal lignaggio delle acque. Poesia degli ultimi americani, a cura di Fernanda Pivano, Feltrinelli. In copertina c'è Jack Kerouac, fotografato da Allen Ginsberg a New York nel 1953, fuma una sigaretta; corpo diafano, da angelo disfatto. Fogli maculati, asciugati col phon. È una reliquia, quel libro. Me lo ha donato, anni fa, la mamma di Marco Pesaresi, il fotografo vagabondo che piaceva a Francis Ford Coppola. Ha fotografato le metropolitane di tutto il mondo, da Città del Messico a Tokyo; il suo reportage sulla Transiberiana mette i brividi. Si è ucciso tre giorni prima del Natale del 2001, inabissandosi nel porto di Rimini. Con sé aveva le poesie dei beat. Un cerchio, a pagina 161, una lirica di Kerouac: «I Buddhisti sono le uniche persone che non mentono,/ Nel Sacro Sutra del Diamante/ Si dice che Dio morirà». Nell'introduzione, che sfoglio come una pergamena, la Pivano sintetizza il carisma dei Beat: «Il loro svincolamento dall'atrofia meccanica e il loro affermarsi come continuatori di una lunga tradizione, tipicamente americana, di scrittori che fuggono dalle scrivanie per cercare nella vita un'ispirazione autentica». Discepoli di una nobile sequela che passa per Thoreau, Melville, Whitman, Hemingway, i Beat in fondo sono una setta, promuovono un monastero, banda di reazionari del Dharma.
La storia è vecchia. In un articolo pubblicato su Studies in American Fiction nel 1983, «Men out of Time: Kerouac, Spengler and the Faustian Soul», Michael D'Orso racconta come Il tramonto dell'Occidente «abbia influenzato profondamente Kerouac e Burroughs fornendo loro il vocabolario concettuale per forgiare l'idea della Beat Generation». Era stato Burroughs, nel 1944, all'epoca della Columbia University, a obbligare Kerouac a leggere Spengler. Quando Allen Ginsberg, nel 1956, dedica Urlo, stampato dalla City Light Books di Ferlinghetti, a «Jack Kerouac, nuovo Buddha della prosa americana», il sommo Jack aveva risciacquato Spengler nel Gange, celebrando l'unione tra Betlemme e Lumbini. Nell'estate del '54 Ginsberg riferisce a Kerouac della sua illuminazione, accaduta su un autobus, verso Veracruz: stimolato dalla codeina vide «come in un dipinto di Giotto, file di sante che salgono e scendono lungo una scala celeste». Gli fu chiaro che «l'uomo è divino quanto la sua immaginazione»; quindi, benedì Kerouac: «Quanto a te, il tuo dovere celeste è scrivere». Da qualche mese, in effetti, Kerouac stava scrivendo, su quaderni sgangherati, il proprio libro sacro, Some of the Dharma. Regesto lisergico di visioni ed effrazioni verbali, di citazioni - da Tommaso d'Aquino ai canti di Milarepa -, di sentenze alienate («Proust e Joyce sono videocamere per riprese in slow motion...»), che reclamano il crollo di Kerouac in un Oriente cupo, moribondo, torbido. Nel canovaccio - che per i critici è il cantiere dei grandi libri di Jack: I vagabondi del Dharma, Big Sur, Angeli della desolazione - si parla di eccesso alcolico («è una forma di auto-omicidio parziale ma troppo triste per arrivare fino in fondo... non bere per ubriacarti bevi per goderti la vita»), appare lo spettro di Ezra Pound («Tutto ciò che avrei da dire a Pound è Svegliati!, e lui/ in cambio, direbbe che la mia prosa & poesia fanno schifo») e un candore continuo, un delirante desiderio di salvezza.
Il giorno del suo compleanno - fa 34 anni - Kerouac ha «avuto una visione di bottiglia di brandy... e di rotondi fiori bianchi... dunque sono un guaritore». Ogni scrittore di genio sogna di scrivere la propria Bibbia, per sconfiggere quella pronunciata da Dio: in questo profluvio di profezie capovolte - pubblicate in origine nel 1999, ora tradotte da Sara Barbera e Emanuele Basile per Mondadori, la perla del centenario di Kerouac, pagg. 444, euro 30 - il coprotagonista è Gesù Cristo, che aleggia un po' ovunque («Pentitevi! Siate in Gesù Cristo!»). Il sogno proibito di Jack è far convergere la potenza del Buddha - il Nulla - nell'oscenità di Cristo - il Tutto intriso di sangue. Lo scrittore, va da sé, si erge a ispirata sintesi: «Sono il Buddha ritornato sotto forma di Shakespeare per il bene del povero Gesù Cristo e di Nietzsche».
Non è una novità neanche che Kerouac, povero cristo, fosse un buon cattolico: «Dall'infanzia sino alla morte, Kerouac scrisse lettere a Dio, preghiere rivolte a Gesù, poesie dedicate a san Paolo e invocazioni», ricorda Antonio Spadaro in un'intervista pubblicata su L'Osservatore Romano nel 2007. D'altronde è Kerouac, in un testo raccolto in Scrivere bop (Mondadori, 1996), a decrittare le origini «cattoliche» dei Beat: «Fu da cattolico che un pomeriggio andai nella chiesa della mia infanzia (una delle tante), Santa Giovanna d'Arco a Lowell, Mass., e a un tratto, con le lacrime agli occhi, quando udii il sacro silenzio della chiesa (ero solo lì dentro, erano le cinque del pomeriggio; fuori i cani abbaiavano, i bambini strillavano, cadevano le foglie, le candele brillavano debolmente solo per me), ebbi la visione di che cosa avevo voluto dire veramente con la parola Beat, la visione che la parola Beat significava beato».
Forse è per questo che il centenario di Kerouac passa negli States un po' sottotraccia, tra filari di vaga vergogna; fino a poco tempo fa gli scritti dimenticati di Jack, di terza mano, più che modesti, erano spacciati come ferule. Troppo bianco, troppo borghese, troppo estremista e con un indefettibile desiderio di sacro, Kerouac, per aggiustarlo tra le magioni dei letterati consueti, corretti, iniqui, utili. Lasciamo che le iene si scotennino in virtuosismi polemici.
Frenesia del karma: il successo clamoroso di On the Road si deve a una botta di culo. Il 5 settembre del 1957 il New York Times battezza il romanzo «autentica opera d'arte di un grande mutamento storico». Nessuno voleva recensirlo, quel romanzo, destinato a sonnecchiare in redazione, finché non lo afferra Gilbert Millstein, residuo collaboratore in quei giorni di marcescente estate. Il giornalista è entusiasta: paragona On the Road a Fiesta, Kerouac a Thomas Wolfe, «ci sono sezioni di una bellezza mozzafiato». Il caporedattore è in vacanza, la recensione passa, il romanzo diventa di culto. Tre anni dopo Henry Miller scriverà che «Jack Kerouac ha violentato a tal punto la nostra immacolata prosa, che essa non potrà più rifarsi una verginità»; dopo averlo letto «è difficile ritornare a scrittori come Hemingway, Steinbeck... o anche... al sottoscritto».
Quanto a me, ho sempre pensato che i Beat condividessero la sorte di Pesaresi: morte per annegamento, per eccesso di vita. Sbagliavo prospettiva. Giovanni Ungarelli, già alto dirigente in Mondadori e Rizzoli, mi ripeteva fino alla rabbia che Sulla strada è il più folgorante romanzo del secolo. Leggi l'ultima pagina, diceva.
Nell'ultima pagina il narratore fissa «i lunghi, lunghissimi cieli sopra il New Jersey e avverto tutta quella terra nuda che si svolge in un'unica incredibile enorme massa fino alla Costa Occidentale»; parla di Dio, dell'Orsa Maggiore, del «padre che mai trovammo», e della «stella della sera». Ecco. Per scrivere devi guardare il cielo, di notte. Ipotizzare un padre. Pregare. Va bene anche da sdraiati, per terra. Il figlio dell'uomo non ha dove posare il capo.
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