dal nostro inviato a Cannes
I colori sgargianti della Spagna di Pedro Almodòvar che sembra ritrarsi in chiaroscuro nei panni di un autore in crisi di creatività e in balìa della droga. Un contrasto che stride, ricorda le tinte vive della sua giovinezza - “Sono cresciuto nella vitalità cromatica di un paese brillante” - ma accenna, molto più che di sfuggita, agli stupefacenti di cui fa largo uso il suo protagonista nella finzione di Dolor y gloria, suo ultimo lavoro, in concorso internazionale, che strizza l’occhio a Otto e mezzo di Fellini, da sempre uno dei suoi registi d’ispirazione diretta. L’opera rientra nella categoria introspettiva della sua filmografia, un po’ come lo erano stati il recente Julieta e La pelle che abito. In passerella l’autore di Volvèr e Tutto su mia madre sfila con la sua musa Penelope Cruz e Antonio Banderas.
“Recitare in questa trama ha rappresentato il momento più felice della mia vita” ha dichiarato l’attore, da molti anni trasferitosi a Los Angeles e tornato per l’affetto che lo lega al suo pigmalione. Dolor y gloria ha il profumo di una sorta di testamento e Almodòvar, all’alba dei settant’anni, è ancora in anticipo sui tempi. Il declino di Salvador Mallo che racconta la sua vita ripercorrendone le alterne fortune, la gioventù e l’amore non sembra essere il crepuscolo di un uomo che due anni fa, sulla Croisette, era il presidente della giuria e non ha mai smesso di realizzare nuovi progetti, pur essendosi allontanato dalla forte energia dei suoi lavori più celebri.
Diversissima impostazione per Little Joe dell’austriaca Jessica Hausner che affronta il tema dell’ingegneria biologica in un momento di grande attualità. Stavolta però è una pianta al centro dell’attenzione dei botanici, un nuovo vegetale capace di donare la felicità ma richiede calore non soltanto nella temperatura e pure dal punto di vista umano. Little Joe, questo il nome del nuovo fiore, ha la proprietà di sprigionare un polline che non altera le funzioni fisiologiche di chi le aspira ma colpisce i centri neurologici, agendo sull’impoverimento dell’importanza del sentimento nella graduatoria di uomini, donne e perfino animali.
La pianta è incapace di riprodursi e usa questa proprietà per difendere la sua specie e non incorrere nel rischio di essere tagliata. La metafora, insomma, è chiara. Senza affettività si vivrebbe liberi da infinite problematiche e condizionamenti, purché tutti - nessuno escluso - ne vengano trasformati. Il concetto di fondo è fortemente opinabile ma è anche assodato che larga parte dell’infelicità derivi da cuori feriti. Il film colpisce il pubblico tenendolo incollato allo schermo pur risultando algido come nelle corde della Hausner che, dieci anni fa, con Lourdes, aveva raccontato una vicenda ad alta intensità di fede con un distacco sorprendente. Allora era una giovanissima malata di sclerosi multipla a recarsi in pellegrinaggio dalla Madonna tornandone guarita. Oggi sono invece i rapporti umani a restare soggetti ai poteri di un vegetale.
Respingente risulta invece Jeanne di Bruno Dumont in concorso nella sezione “Un certain regard”, ridondante racconto dell’eroina francese del XV secolo tra dialoghi estenuanti e una recitazione discutibile. Due ore e un quarto che scoraggiano anche i più audaci, in un film assolutamente privo di vivacità e azione.
Intanto sale la febbre del festival per l’arrivo del primo divo, ormai lontano dalla ribalta. Domani sarà il giorno di Alain Delon, preceduto dalle polemiche che, in serata, riceverà la Palma d’onore per la sua sfolgorante carriera.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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