Nella storia si è dato spesso che chi esercita il potere non sia chiamato a risponderne. Che sia chiamato a rispondere chi non ha potere, invece, mi pare sia accaduto più di rado. Ma dagli anni settanta in poi è proprio questo quel che è successo alla politica: le è stata attribuita la responsabilità di problemi che non aveva più la forza di risolvere.
Il progetto di emancipazione soggettiva, conseguenza dell'assetto sociale democratico, trascende i confini della sfera pubblica, ma la politica se n'è fatta carico a partire quanto meno dalla Rivoluzione francese. Anche nell'ultimo mezzo secolo, l'establishment politico si è ben guardato dall'opporsi a viso aperto alla richiesta di sempre maggiore autodeterminazione e alle sue derive narcisistiche. Non ha speso la propria credibilità e capacità di mobilitazione per mostrare ai governati che stavano chiedendo troppo, e che così facendo mettevano in pericolo il meccanismo stesso che consentiva loro di chiedere. Al contrario, ha accolto le loro richieste come legittime e si è impegnato a soddisfarle. Ci sarebbe da chiedersi se la politica abbia mai davvero avuto alternative, o se la spinta all'emancipazione soggettiva sia stata così prepotente che la si poteva soltanto assecondare. E anche quanto la politica democratica sia stata indotta ad assecondarla dalla propria conformazione competitiva. Ci fossero o no altre vie, a ogni modo, nei fatti la politica ha accettato di farsi garante di quell'emancipazione.
E così facendo si è cacciata in una trappola che, da cinquant'anni a questa parte, la sta lentamente ma inesorabilmente stritolando. L'assoluta autodeterminazione individuale, innanzitutto, è incompatibile con la condizione umana, perciò è sempre stata e resterà sempre un'utopia. A partire dai tardi anni sessanta, in secondo luogo - fallito il progressismo liberale con la Grande guerra, fallito lo storicismo marxista nei due decenni successivi al 1945 -, la politica non ha più avuto gli strumenti ideologici necessari a inserire il progetto di emancipazione all'interno di una lettura coerente e credibile del tempo. E in assenza di pensiero utopico, dare garanzie che l'utopia sarà realizzata diventa ancora più difficile. Nell'ultimo mezzo secolo infine, tentando disperatamente di sopravvivere alla missione impossibile che si è data, la politica ha segato due volte e mezzo il ramo sul quale sta seduta.
Lo ha segato una prima volta perché, accettando di fare dell'ampliamento degli spazi di libertà l'obiettivo prioritario della propria azione, ha alimentato il circolo vizioso per il quale più avanzano i processi di emancipazione individuale, più si logorano le condizioni del fare politica: potere, identità, tempo, razionalità, conflitto. Una seconda volta perché, sottoposta a una pressione insopportabile dalla promessa che essa stessa ha fatto - o è stata costretta a fare -, per poterla tenere sotto controllo ha dovuto accettare di restringere il proprio ambito d'intervento e di sacrificare la propria logica specifica e la propria autonomia a vantaggio di istituzioni e logiche non politiche, privandosi così degli strumenti che soli avrebbero potuto permetterle di mantenere quella promessa, anche soltanto in parte. Lo ha segato una terza volta, infine, sebbene in questo caso soltanto a metà, quando ha deciso di mettere i cittadini a più stretto contatto dei processi decisionali pubblici tramite il decentramento o il referendum. Se è indubbio che il più frequente coinvolgimento degli elettori conferisce alle istituzioni rappresentative maggiore legittimità, è vero anche che il moltiplicarsi delle tornate elettorali abbrevia le prospettive temporali della politica, e quello dei centri decisionali ne riduce l'efficacia e l'efficienza. La legittimazione rischia così di rovesciarsi in delegittimazione: gli elettori si renderanno conto di essere sì chiamati a votare sempre più spesso, ma per organismi che sono sempre meno capaci di soddisfare le loro richieste. Quanto al referendum, se in origine era stato immaginato come uno strumento complementare alla democrazia delegata e utile a rafforzarla, sempre più spesso è stato invece utilizzato per contestare le istituzioni rappresentative e l'establishment politico che le controlla.
Questa è dunque la trappola nella quale la politica viene a trovarsi: non soltanto è ritenuta responsabile della mancata realizzazione di un progetto irrealizzabile, ma con gli sforzi che ha compiuto sia per realizzarlo, sia per contenerne la spinta, si è anche privata sempre di più degli strumenti necessari a raggiungerne gli obiettivi. Gli effetti della trappola sono aggravati poi dall'affollarsi, sia al suo interno, sia al di fuori di essa, dei narcisisti. Gli elettori - i narcisisti esterni alla trappola - mirano a soddisfare il proprio bisogno immediato di benessere psichico scaricando le emozioni negative da cui sono assediati: paura, rabbia, senso d'impotenza. I politici - i narcisisti intrappolati - sono in bella vista al centro dello spazio pubblico, con la loro persona più che con le loro idee, e si sforzano di attrarre ogni sguardo. Fra elettori e politici è sempre più difficile costruire una relazione sensata, fondata su concezioni condivise della realtà, del tempo e della ragione, e gli elettori hanno perduto qualsiasi sentimento di deferenza.
Come potrà mai una politica già colpevole di una promessa mirabolante non mantenuta, difficile da valutare nei suoi risultati concreti passati e presenti e nei suoi progetti futuri a causa della babele dei criteri di giudizio, sempre più palesemente impotente, e tuttavia illuminata a giorno dalle luci della ribalta e popolata di primedonne palesemente gratificate dall'attenzione del pubblico - come potrà questa politica non diventare il fantoccio di
paglia contro il quale un elettorato deluso, sconcertato, instabile, emotivo sfoga tutta la propria frustrazione? Come potrà la politica, dopo aver perduto ogni sua funzione, non assumere infine quella del capro espiatorio?
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