Joe Bonamassa è l'ultimo dei grandi virtuosi della chitarra, di quelli che fanno vibrare lo strumento e ne fanno uscire assolo fantastici e imprendibili. Però suona anche con l'anima ed è da anni il tedoforo del rock blues che coniuga arte e successo. Il suo precedente album, Royal Tea, ha conquistato le classifiche di tutto il mondo (anche in Italia) alla faccia del rap, della trap e della musica omologata imperante. Ora pubblica Time Clocks, che si sta già muovendo nelle hit parade, proiettandolo un'altra volta nel gotha della musica internazionale.
Il suo segreto?
«La semplicità e la voglia di tirare diritto per la mia strada senza guardare troppo alle mode o alle tendenze. Io suono rock duro e blues e questo è quanto».
Lei passa la maggior parte del suo tempo in tournée, come ha vissuto il lockdown?
«Ho imparato alcune cose mentre mi trovavo in semiritiro forzato. Come musicista ho imparato che non sono un chitarrista, né un cantante e neppure un songwriter... Io sono un entertainer. La mia vita è il palco e ho bisogno del pubblico come del cibo che mangio. Non mi piace stare in casa tutto il giorno a suonare e neppure fare video da postare sui social. Nel periodo in cui non ho avuto contatto col pubblico, il mio umore è crollato come un castello di carte».
Lei però non ha sentito la crisi.
«Fortunatamente no, ma molte giovani band sono in ginocchio. Per questo con altri amici abbiamo raccolto 600mila dollari da dare in beneficenza e la Fondazione Keeping the Blues Alive ha raccolto più di un milione e mezzo di dollari».
Ora tornerà in giro per il mondo in concerto?
«Sì, girerò gli Stati Uniti e poi tutta Europa, verrò anche in Italia e in Germania dove sono molto amato e dove Royal Tea è arrivato al quinto posto nelle classifiche».
Cosa ci racconta del nuovo album?
«Royal Tea aveva un suono prepotentemente inglese. Per questo l'ho inciso a Londra agli studi Abbey Road. Non volevo un suono americano, oh no, volevo che avesse quel particolare mood che aveva il blues inglese negli anni Sessanta. Posso dire che Time Clocks è la naturale estensione del precedente, tanto che il brano che dà il titolo al disco l'avevo scritto ai tempi di Royal Tea. Per me nella musica conta la continuità. Il disco parla del passare del tempo. Io oggi ho 44 anni e mi sento come dieci anni fa, ricordo la mia vita, i miei compleanni e il suono che li ha accompagnati».
Ma in questi due anni le cose sono cambiate.
«Per me l'importante, ripeto, resta l'interagire con il pubblico. Non mi interessa postare foto su Instagram o parlare attraverso Zoom. Mi mancano quattro chiacchiere e una birra in un bar di Amsterdam dopo un indiavolato concerto. Mi sono accorto che il mio pubblico è sempre più elettrizzato spettacolo dopo spettacolo. Da parte mia non ho più nulla da dimostrare, ai virtuosismi preferisco le emozioni. Brani più coloriti e che provochino sensazioni».
La copertina del disco è bellissima.
«È di Hugh Syme, conosciuto per copertine come quelle dei Dream Theater o dei Rush. Amo il suo lavoro, mi rappresenta bene».
Soddisfatto del lavoro quindi?
«Un lavoro molto vario, che a classici blues come Questions and Answers unisce un tocco soul blues alla Robert Cray, di cui sono un grande fan, in brani come The Heart That Never Waits, una ballata d'amore che ho scritto con James House. Ma il mio brano preferito è Notches».
Cosa pensa della musica di oggi?
«Da un lato sembra di essere tornato agli anni '50. Tutti pubblicano brani singoli, come i 45 giri di una volta. Dall'altro c'è troppo uso dei social media.
Se giri un video deve avere calore, un'anima e non importa quanti lo guardano. Se un video diventa virale e viene visto da milioni di persone, non vuol dire che sia migliore di un video che ha poche visualizzazioni. L'importante sono sempre la qualità e il sentimento: non dimenticatelo mai».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.