«È troppo comodo, per uno scrittore, utilizzare la narrazione e nascondersi dietro la licenza del creare». Così Michela Marzano, su Repubblica di ieri, poco prima di chiudere la sua intemerata contro il romanzo di Walter Siti Bruciare tutto. Una recensione fondata sul nulla, «maternale» a parte. Non dà conto delle modalità di scrittura del romanzo, dei suoi valori (o disvalori) estetici, dei suoi meccanismi narrativi. Mira unicamente a demolire l'opera di Siti per partito preso, ben oltre la sommarietà del confronto con James Ellroy e Georges Bernanos, in nome di un realismo che, rigo dopo rigo, si scopre portavoce di uno sfacciato neopuritanesimo. Un pezzo che finisce per ritirare, a Bruciare tutto, perfino la patente di letterarietà. La letteratura «ha le spalle molto larghe», ammette Marzano, ma possono riuscire quelle di Siti, se letterarie neanche sono, a sostenere il peso delle proprie e altrui responsabilità? Il cerchio così si chiude, e il discorso critico si rivela un alibi per parlar d'altro, per far quadrato contro uno scrittore intenzionato, una volta tanto, a rovesciare l'ordine costituito di una narrativa italiana sempre più sofferente del niente. Che s'interroga sul niente, e al niente risponde col niente. «Ci sarà sempre qualcosa che non è mai dato nel mondo», ha scritto Wolfgang Iser (L'atto di lettura, 1987), e che un'opera d'arte è la sola che riesca a dare: «Essa ci consente di trascendere il nostro vivere nel mondo reale».
Un principio elementare, ma non abbastanza per gli occhiuti moralizzatori che, con la scusa di volerci trasformare in cittadini esemplari, parlano di letteratura un po' a vanvera. L'ingenuo e dilettantistico frutto dell'ennesima deriva radical-perbenista. Questa sì, inaccettabile, e con la quale ingaggiare una lotta senza quartiere.
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