Per i cultori di Walt Whitman (West Hills, 1819 Camden, 1892), un libro come questo (Non esiste diavolo peggiore dell'uomo, De Piante editore, pagg. 246, euro 20; a cura di Emil Ronìn), diventerà indispensabile. Permette infatti di entrare nel mondo dell'immenso poeta da una angolazione diversa, quella delle interviste che rilasciò a giornalisti negli ultimi due decenni della sua vita. Whitman, uomo che contenne moltitudini, «un cosmo, di Manhattan il figlio», fece, tra cento mestieri, anche il giornalista di strada, il tipografo, l'inventore di testate, tra cui The Evening Tattler, Il Chiacchierone della Sera. E in queste pagine dice a un intervistatore che i giornali possono essere «infami e grandiosi». È dunque ben disposto verso i «colleghi», cui si concede con sincerità, umorismo, grazia, sintonia. Viene fuori un suo ritratto completo. Ecco la sua casa al 328 di Nickle Street, a Camden, un non ameno sobborgo di Philadelphia: un piccolo edificio in legno a due piani, umile, dalle cui finestre non si vede un albero. E lui, un druida infermo, la posa leonina ma affabile, i capelli e la barba bianca e fluente, pronto a parlare di tutto: non escluse le sue condizioni finanziarie molto precarie e le vendite dei suoi libri, mai così soddisfacenti da assicurargli un reddito sicuro. Eppure quest'uomo anziano, che ha subito una paralisi, che vive solo con un cane e accudito dalla benevolenza di una signora, dalla sua povera casa, da una poltrona in mezzo a una camera stracolma di libri e giornali irradia un sapere che è un punto di riferimento poetico, morale, spirituale per il mondo intero. Ruben Darìo, un poeta della sua razza, così lo descrive in un verso: «Bello como un patriarca, sereno y santo». Dall'Europa gli scrivono Tennyson, Zola, Hugo. Quando Oscar Wilde, il grande esteta alla moda, arriva in America per un tour di conferenze, non manca di fare tappa a Camden, e i due se la spassano un pomeriggio bevendo vino e parlando della bellezza. Wilde dichiarerà che Whitman «è uno degli uomini più meravigliosi, energici che siano mai vissuti». L'energia di Whitman è quella che promana dalla sua opera, e si riverbera nelle sue conversazioni con i suoi visitatori: è l'energia dell'ottimismo, della speranza, della fede, della solidarietà, della fratellanza umana. È l'energia che soffia nell'idea di democrazia, nella libertà, nella sensualità, nella inedita sintesi di Corpo e Anima.
Come nelle sue poesie, nelle interviste qui raccolte Whitman glorifica la natura (sua «vera sposa»), il lavoro, il cameratismo, la pietà, quella che lui profuse nei quatto o cinque anni di guerra, la sanguinosissima Guerra di Secessione, in cui militò come infermiere, non a distruggere, lo sottolinea spesso, ma a salvare vite di giovani uomini. Vede l'America affacciarsi sulla scena del mondo con le sue immense risorse, con la sua industria, con la sua democrazia, e ne profetizza la grandezza. Ma la grandezza di cui parla il poeta di Camden ha sempre a che fare con il primato dell'uomo e dello spirito, dell'energia vitale che anima una società affrancata finalmente da schiavitù e feudalesimo. Per Whitman, «non esiste una cosa come la decadenza». L'Europa del Decadentismo è lontana, il Tramonto dell'Occidente di Spengler ancora da venire, la critica radicale del mondo industriale di D.H. Lawrence, grande interprete di Whitman, in quel momento aurorale è inconcepibile. Whitman è tutto dentro l'attimo presente, e lancia verso il futuro messaggi istantanei di vitalità e di crescita. Parla anche liberamente di letteratura e di libri, e così veniamo a conoscere più nel dettaglio i suoi giudizi e i suoi gusti: Thoreau ama i boschi per disprezzo verso l'umanità, Tennyson manca di solidarietà, Poe è troppo incline al lato cupo della vita, Hawthorne, che ha successo di pubblico, a lui sembra sentimentale, malinconico, morboso, Byron è rancoroso, in preda a una disperata brutalità, di Tolstoj ha letto Guerra e pace, ma non ne ha «ricavato molto». Indipendente, fiero, Whitman ama Shakespeare (a cui però rimprovera un residuo di feudalesimo nel non avere creato personaggi umili che non siano comici o stolti), Walter Scott, la Bibbia, Omero.
Il suo Foglie d'erba ha la struttura di un libro sacro. Ma di un libro sacro in cui soffiano i venti del presente, del giornalismo, dell'attualità. Per me è un pregio, anche se a cominciare da Emerson molti non la videro così. La più clamorosa sottovalutazione di Whitman, forse scherzosa ma inadeguata e irritante è quella dovuta a Giorgio Manganelli, in un suo saggio premesso a una edizione di Foglie d'erba. Io non ho più letto Manganelli da allora. Sono felice che nella sua ottima introduzione, dove giustamente rimarca il coté omosessuale di Whitman che gli detta le bellissime poesie di Calamus, il poeta Franco Buffoni abbia indirizzato a Manganelli una sacrosanta risposta: scrivendo che per essere un grande poeta, «il fatto di aver davvero qualcosa da dire sia più importante di qualsiasi altro dato culturale».
Walt Whitman, poeta, profeta, Capitano, ne aveva davvero cose da dire, sul corpo, sull'anima, sul sesso, sulla natura, sulla democrazia, sulla gioia e sulla malattia, sulla vita e sulla morte. Leggere queste sue interviste è risentire la sua voce, ancora più vicina e fraterna.
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