Il viandante del mare Fuga da Bisanzio per vendicarsi di Cosimo de' Medici

Ecco il prequel inedito del bestseller di Marcello Simoni, «L'eredità dell'abate nero». Tutto inizia con una battaglia navale contro i corsari turchi

di Marcello Simoni

Mar Egeo, 22 maggio 1453

Il viandante stava ritto a prua, intento a fissare l'eclissi di luna. Sopra una distesa di onde nere, il cielo era uno specchio di cobalto che pulsava di vita propria. Sembrava quasi impossibile che a levante, tra le rovine di Lismachia e il Bosforo, infuriasse un assedio così aspro da oscurare la ragione di chiunque si arrischiasse a posarvi sopra lo sguardo. Eppure gli astrologi l'avevano annunciato, e prima di loro i messaggeri del Mar Nero e i mercanti giunti dai caravanserragli dei deserti arabici. Bisanzio sarebbe caduta, e con essa una civiltà che prosperava dal tempo dei tetrarchi.

Ma era qualcosa di diverso che l'uomo sentiva scivolare via tra le dita. Qualcosa di ancor più prezioso del retaggio e della magia di una città-reliquia. Come se il mondo tutto, destatosi all'improvviso da un sonno antico, si apprestasse a rinnegare il proprio spirito per affacciarsi a un'epoca di nuove barbarie.

Barbarie a cui il viandante era scampato per un soffio. Prima che le locuste di Maometto II occupassero la terra e le acque con le loro scimitarre e i loro cannoni, si era affrettato ad armare una delle poche galee cristiane disponibili a meridione del Corno d'Oro, oltre la fortezza turca di Rumeli Hisar. Ed era fuggito senza nemmeno dare il tempo al basileus di accusarlo di codardia.

Del resto, per quanto avesse vissuto con i greci dall'infanzia, non condivideva il loro fatalismo, né tantomeno il senso del sacrificio. Il suo sangue era fiorentino, il suo talento sopravvivere a ogni costo. Era sempre stato così, fin da quando, ancora in fasce, era stato allontanato dalle terre tosche per crescere al sicuro dai nemici della sua famiglia. Nemici che col tempo avevano cambiato volto, lingua e persino fede, diventando sempre più letali.

Ragion per cui l'uomo si era premurato d'imbarcare al proprio seguito degli armigeri fidati, pronti a morire per lui e per il suo segreto. Altrettanto, ahimè, non poteva dirsi della ciurma e soprattutto dei vogatori, quasi per intero schiavi turchi che avrebbero sacrificato un occhio pur di vedersi abbordati dai corsari del sultano. D'altro canto, con l'ondata di panico abbattutasi sui porti dell'Asia, non c'era stato il tempo di fare gli schizzinosi. La priorità di prendere il largo aveva prevalso su tutto.

Il viandante, tuttavia, non si reputava alla stregua dei tanti fuggiaschi bizantini che navigavano alla cieca lungo le rotte dirette a Occidente.

Cullato dall'infrangersi delle onde sulla ruota di prua, sfilò una carta nautica dalla cappa da viaggio e la consultò alla luce di una lanterna. Anche quel documento, al pari dei vogatori, era turco, ma al loro contrario equivaleva a un vantaggio. I cartografi dell'impero ottomano erano assai più puntigliosi dei marinai cristiani, che coi loro mille portolani non avevano saputo minimamente sfiorare la precisione di Tolomeo.

L'uomo fece scorrere l'indice sulle coste d'Asia, meditando su ogni isola, golfo e caletta segnata col nero di seppia. Dopo anni trascorsi in qualità di consigliere alla corte di Bisanzio, conosceva il valore strategico e mercantile di ogni nome che compariva sotto le sue pupille. E di primo acchito gli fu naturale pensare di far vela verso Chios, Syra o Santorini. Poi, però, concluse che avventurandosi nell'arcipelago greco si sarebbe cacciato in un'enorme trappola. Le fuste dei corsari turchi erano senz'altro sparpagliate in quel tratto di mare, pronte ad assalire qualsiasi incauto fosse stato disposto ad attraversarlo.

Molto meglio far rotta verso la Morea, tenendosi al largo dell'isola di Lemno con i fanali spenti. Sì, concluse. La luna nera l'avrebbe protetto.

Un sibilo fiammeggiante lo colse impreparato.

Prima che potesse rendersi conto di quel che accadeva, l'uomo vide una freccia infuocata conficcarsi sull'albero di bompresso. Poi un'altra sulla murata di tribordo e un'altra ancora che mandò in pezzi la lanterna.

«I turchi!», gridò una voce dalla coffa di maestra.

Dopodiché ogni rumore fu sovrastato dal fischio d'infiniti quadrelli che piovevano dal cielo, abbattendosi sul ponte, sugli uomini e sugli alberi.

Il viandante cercò riparo dietro il parapetto della rembata, sbirciando sulla distesa color pece in direzione dell'attacco. All'inizio non riuscì a scorgerla, tant'era fitta la tenebra, poi distinse una sagoma più nera della notte che avanzava da levante. Impossibile stabilirne la velocità, come pure il numero di sciacalli che si preparavano a combattere sul suo ponte.

Maledicendo la sfortuna, l'uomo attese l'esaurirsi di una seconda raffica di frecce e si preparò a correre verso la carrozza di poppa per andare in cerca del capitano. Ma non fece in tempo a entrare in azione che s'imbatté in un armigero dalla stazza formidabile, con la faccia sprofondata per metà in un elmo di ferro e nell'altra in un cespuglio di barba biondiccia.

Yngvarr, l'ultimo dei soldati variaghi di Costantinopoli, gli cinse la vita con un braccio e, facendogli da scudo col proprio corpo, lo condusse di persona verso l'estremità opposta della galea. Non sarebbero mai riusciti a raggiungerla.

In un ribollire di schiuma marina, l'enorme rostro della nave nemica spuntò dal buio lacerando la vela di trinchetto. Lo schianto dei remi, fondendosi all'ululato dei vogatori, accompagnò il gemito degli scafi che cozzavano come carapaci di mostri marini.

«Dietro di me!», sibilò il variago, preparandosi ad affrontare un'orda di diavoli neri che, agilissimi, si riversavano sulla nave fuggiasca.

Il viandante non poté che obbedire, affidandosi alla spada del suo mastodontico servitore. E mentre sguainava un pugnale, si guardò intorno per valutare la situazione. Degli armigeri ai suoi comandi ne sopravviveva una ventina, forse più, e tuttavia i nemici parevano il doppio. Non posso morire, si disse. Non così. La sua vita era appena giunta a un punto in cui un uomo si sentiva in obbligo da un lato di far ammenda per i propri peccati, e dall'altro a dare un significato alla propria esistenza.

D'un tratto la mole del variago si piegò di sghimbescio sotto un colpo d'ascia, facendo spuntare dal nulla un giannizzero armato con una mezza picca. Il viandante riuscì a schivare un affondo e, senza esitare, piantò la lama nel fianco dell'assalitore. Poi, disinteressato a protrarre il combattimento, si fece largo sul ponte che iniziava a prendere fuoco e ripiegò verso l'ingresso della stiva.

Si sarebbe barricato là dentro, pensò, finché lo scontro non fosse giunto al termine. I corsari turchi potevano essere dei barbari, ma di sicuro non erano indifferenti allo scintillio dell'oro. E lui, il viandante, aveva imbarcato su quella galea sette casse zeppe di bisanti. C'era di che barattar la propria pelle... Ma anche di più.

Serrando l'uscio alle proprie spalle, si liberò con un manrovescio di un ufficiale che gli stava venendo incontro tutto tremante e proseguì verso un cubicolo di cui soltanto lui possedeva la chiave. Fece scattare il chiavaccio e si rinserrò all'interno.

Lo spazio era angusto, pregno d'odore di sentina, ma l'uomo non si curò del disagio e nemmeno dei sette forzieri di legno borchiato impilati l'uno sull'altro, contro una parete.

Tutto il suo interesse era per un cofanetto riposto in un angolo, sopra un plico di tomi rilegati e di pergamene cucite tra loro con dei lacci di pelle. Il suo tesoro più grande.

Prese il contenitore e l'aprì con cautela, accorgendosi soltanto allora di avere una mano sporca di sangue. La pulì strofinandola contro un lembo della cappa, quindi estrasse l'oggetto all'interno del cofanetto.

Un libro.

Mai e poi mai..., pensò, quasi si rivolgesse a un essere animato.

Mai e poi mai lascerò che tu cada nelle mani di qualcun altro.

Non finché non mi avrai aiutato a vendicarmi di Cosimo de' Medici.

Ma al pensiero che il suo complotto potesse fallire quella notte, in seguito a un maledetto arrembaggio, si sentì bruciare d'una rabbia così feroce da desiderare di lanciarsi allo scoperto per far strage degli scellerati piombati sul ponte della sua nave. Come osavano, quei cani, intralciare i suoi piani?

Fu allora che si rese conto dello scemare del frastuono. Il combattimento stava per giungere a conclusione, e molto presto il viandante avrebbe saputo se dover giocare d'astuzia con il nemico o imporsi sui sopravvissuti del suo equipaggio per tracciare una rotta verso un luogo sicuro. O se la galea su cui si era imbarcato si stesse inabissando nelle profondità marine.

Rise con amarezza, immaginandosi l'ira del fratello gemello alla notizia che il libro da lui tanto agognato, la Tavola di Smeraldo, fosse andato irrimediabilmente perduto tra le onde dell'Egeo.

Poi udì un risuonare di passi che si facevano strada giù per la stiva, quindi dei colpi violentissimi infrangersi sul battente del cubicolo in cui si era asserragliato.

L'uomo fece per sguainare il pugnale, ma all'improvviso si rammentò d'averlo perduto durante lo scontro sul ponte. Poco male, sospirò. E ansioso di conoscere quale sorte l'aspettasse, infilò la chiave nella toppa e aprì.

La prima cosa che vide fu la faccia leonina di Yngvarr, l'elmo spezzato e uno squarcio

scarlatto che gli solcava la fronte.

«Messer Damiano de' Medici, mio padrone», annunciò il variago, invitandolo a uscire con un gesto della spada. «L'attacco è stato respinto, la ciurma si appresta a spegnere le fiamme!».

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