Una spina nel fianco dell’Unione

Nella storia della sinistra italiana c'è una parola chiave che ha provocato non pochi guai: i movimenti. Fausto Bertinotti dice ormai da mesi che il suo scopo è ora quello di portarli al governo. Lo ha ripetuto ancora ieri in una densa intervista concessa ad un giornale come Il Riformista che promuove una linea politica molto lontana dalla sua, anche se appartiene alla stessa alleanza elettorale. E lo ha fatto nel giorno stesso in cui ha posto i suoi partner di fronte al problema dell'annunciata contestazione dei Giochi olimpici di Torino, rimandando al mittente l'invito a spendere il suo nome per calmare gli animi.
Più chiaro di così Bertinotti non poteva essere. Romano Prodi è un leader senza partito, forte solo dell'investitura delle primarie. Francesco Rutelli insegue con grande difficoltà il progetto del futuro Partito democratico. Piero Fassino e Massimo D'Alema sono alle prese con i nodi irrisolti della doppiezza diessina. Il messaggio è esplicito: nell'Unione egli peserà non solo per i consensi reali raccolti da Rifondazione, ma anche per la deterrenza rappresentata dai movimenti. Deterrenza è la parola giusta e sta a significare che ogni slancio riformista o innovatore troverà davanti a sé innanzitutto l'ostacolo della piazza, con la sua «autonomia» e la sua incontrollabilità.
Si tratta di qualcosa di profondamente diverso dagli altolà che la Cgil inviava a Massimo D'Alema, presidente del Consiglio, quando parlava del riordino del sistema pensionistico. Quella era una partita interna, istituzionale, tra poteri codificati, e rifletteva rapporti di forza reali. Adesso ci si affida alle scintille, allo spontaneismo organizzato. Bertinotti fa il suo mestiere, invita l'Unione ad investire sui movimenti, a considerarli un soggetto «a pieno titolo del disegno futuro di paese», ma nel frattempo è soprattutto lui ad investire e ad annunciare che «nel rapporto con loro, chi ha più filo da tessere, tesserà». Un gioco facile, se si pensa che Francesco Caruso, futuro deputato di Rifondazione, ha spiegato con un linguaggio elementare che le Olimpiadi sono state elette a bersaglio «perché sono ormai dominate dalla logica del profitto e dagli interessi della Coca-Cola...». Ancora più facile, se si pensa che né Fassino, né D'Alema, né Rutelli sono in grado anche solo di interloquire con il portatore di un simile approccio. Anzi, temono che a Torino, come è già accaduto in Val di Susa, il volto dell'Unione sarà quello della contestazione. Temono cioè quel che i movimenti oggi sanno offrire, cioè il rifiuto, la paralisi, la tensione e soprattutto il contagio. Cioè una traduzione italiana del modello Chavez, dal nome del presidente venezuelano che ha dato vita al nuovo populismo di sinistra. E infatti hanno cominciato a reagire.
Ma quel che colpisce è la bonomia di Romano Prodi. C'è da chiedersi se l'ultimo messaggio lanciato da Bertinotti non sia rivolto proprio al candidato premier. È lui che deve investire su Caruso e i suoi amici? È lui che li deve considerare come una stampella del suo progetto? Il leader di Rifondazione è troppo intelligente per parlare al vuoto, sa che l'Unione è una tessitura complicata, segnata dagli ossimori, e che la parola chiave movimenti sulla bilancia degli equilibri interni modifica le percentuali elettorali, prevarica sui numeri delle rappresentanze elettive.

È, come nota Il Riformista, «parte stessa della dialettica interna all'Unione». C'è da aspettarsi una parola di Prodi sull'apertura di questo vaso di Pandora. Ma forse per il Professore la prospettiva di governare con i no-global non è un problema.

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