Ci sono domeniche in cui il pallone gioca a fare Dio. Uno sta per raccontare l’inizio di Andrea Stramaccioni e sente: «È morto Giorgio Chinaglia». Cambia la giornata e cambia anche la storia. È l’incrocio della nascita con la morte e avviene su un campo di pallone immaginario: unisce San Siro e la Florida, dove Giorgione viveva da latitante dopo qualche guaio di troppo arrivato proprio per colpa del calcio. Continui a vedere le immagini del nuovo allenatore dell’Inter, a sentirlo parlare, con quell’accento romano e quei toni da stagista ambizioso e torni a Chinaglia, che invece davanti ai microfoni zoppicava sempre un po’: parlava con la difficoltà di uno che non aveva studiato, con in più la complicazione di l’inflessione inglese della nascita e americana della maturità, quella acquisita quando era finito a giocare a New York per denaro e per non arrendersi al tempo.
La giornata che avrebbe dovuto essere l’inizio di qualcosa è invece la fine di molto. Perché nei suoi sessantacinque anni, Chinaglia è stato un sacco di cose: la forza di un gioco poco elegante ed efficacissimo, la faccia di uno scudetto storico come quello della Lazio del 1974, il “vaffa” in diretta mondiale dopo la sostituzione in Nazionale, il primo pezzo di Italia andato all’estero per giocare e guadagnare il più possibile, lo sbarco del calcio negli Usa, il presidente che negli anni Ottanta salvò la Lazio prima e poi l’accompagnò in B, il capocordata di un gruppo di persone che avrebbe dovuto scalare il club negli anni Duemila, il commentatore di Pressing e di Galagol, il ricercato dalla polizia per strani intrecci con personaggi della mala. Nel suo stile sempre un po’ al di sopra della sobrietà, Chinaglia è stato simbolico. Un concentrato di contemporaneità: il calcio al quadrato. Uno che aveva giocato con Pelé e Beckenbauer e che era finito latitante. S’è adattato al mondo in cui viveva e nel quale i confini tra la popolarità e il sottobosco sono stati e restano molto stretti. Ecco perché fa ancora più impressione che sia morto nella domenica in cui il pallone battezza il suo opposto. Andrea Stramaccioni, l’avvocato laureato; non avesse avuto la possibilità di entrare nel mondo del pallone, avrebbe fatto il professionista di qualsiasi altra cosa. Giorgio no: è uno di quei tipi che senza pallone non avrebbero potuto vivere. Il calcio è questa strana cosa: unisce tipi diversi, percorsi diversi, stili di vita diversi. Trovi tutto e dentro quel tutto scegli con chi stai: la squadra e le storie. Non ci sono limiti, se non quelli che ti poni da solo. Stramaccioni e Chinaglia, nella giornata di ieri, hanno scavalcato però il confine dell’essere solo il nuovo allenatore dell’Inter e la bandiera della Lazio. Non c’è tifo di fronte a una carriera che inizia e a una vita che finisce. C’è la riflessione di uno sport che gioca col destino, sempre. Stramax, romano e romanista, non era neanche nato quando Chinaglia segnava il gol che diede lo scudetto alla Lazio. L’amore per il calcio gli farà mancare comunque Long John.
Quello che s’è collegato col mondo l’ultima volta venerdì. È intervenuto nella trasmissione che da anni conduceva sulla radio americana Sirius Satellite. Ha parlato di Juve, poi di Inter. Ha detto: «Vediamo che fa questo Stramaccioni domenica».twitter: @giudebellis
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