Åre Petra Vlhova è la nuova campionessa del mondo di gigante. Se lo avessimo detto tre mesi fa ci avrebbero guardato come fossimo matti. La slovacca era una stella dello slalom, in crescita anche in combinata, certo, ma il gigante no, non era proprio la sua specialità. Fino a due stagioni fa faticava a qualificarsi per le seconde manche, raccattava qualche piazzamento con buone prove qua e là, ma certo non era un punto di riferimento per la disciplina. Quelli erano piuttosto Viktoria Rebensburg e Mikaela Shiffrin, Federica Brignone e Tessa Worley più, dall'anno scorso, Ragnhild Mowinkel, la norvegese. Eccole queste cinque atlete, schierate alla premiazione serale che si improvvisa al parterre perché fra le tante perle di questo mondiale c'è anche quella di aver previsto la consegna delle medaglie di questa gara sabato sera, senza considerare che le gigantiste, una volta finito il loro compito, sarebbero partite di corsa, senza rimanere a Åre un minuto di più. Eccole lì, Viki Rebensburg, argento, un po' abbacchiata dopo aver buttato l'oro nelle ultime porte della seconda manche, Mikaela Shiffrin, più che abbacchiata, piuttosto nera per un bronzo che non è quel che cercava, e poi nell'ordine Mowinckel, Brignone e Worley, tutt'altro che contente, perché al Mondiale conta poco fare da ancelle a quelle sul podio e tutte e tre avevano sperato di finire la serata in modo diverso.
E poi c'è lei, alta, imponente, le domina tutte con il suo fisico e le ha dominate tutte anche in pista. Incredibile a dirsi, ma Petra è quella che ieri ha sbagliato di più, in entrambe le manche. Ha vinto con 14/100 sulla tedesca, ma avrebbe potuto vincere di oltre un secondo, quindi non c'è stata davvero storia, era la più forte, punto. In gigante, sì, proprio così. E non è certo arrivata qui da outsider, avendo già vinto due volte in stagione in coppa e avendo dimostrato una forma eccellente già in combinata, dove aveva perso l'oro per soli 2/100. Ma, ci si chiede, quando è cominciata questa trasformazione? Bisogna andare alla primavera del 2016, quando il papà di Petra, di professione tornitore con un'azienda ben avviata vicino a Jasna, sui Monti Tatra, decide di investire sulla figlia creandole attorno un team privato guidato dal tecnico italiano Livio Magoni, che l'anno prima era stato licenziato dalla squadra italiana per attriti con alcune atlete. Forte di un contratto triennale, l'uomo che aveva portato Tina Maze alla conquista della coppa del mondo con record di punti nel 2014, ha cominciato a plasmare la ragazza dotata di forza fisica fuori del comune ma soprattutto di una volontà ferrea: «E' determinata, se ha fiducia in te fa tutto quello che le dici. Sono così le ragazze dell'est, quando decidono di prendere una strada, non la mollano e fanno tutto per raggiungere l'obiettivo con una serietà impressionante».
Gareggiare nell'era Shiffrin vuol dire cercare di lavorare più e meglio dell'americana, con qualità, quantità e nulla lasciato al caso. Ma bisogna soprattutto credere di poterla battere ed è proprio questo che spesso fa la differenza fra Petra e le altre. Sul suo profilo instagram la slovacca si definisce «ragazza con grandi sogni» e ieri sera dopo la vittoria non è parsa per nulla sorpresa, ma tanto, tanto orgogliosa.
«Voglio che adesso tutti sappiano chi è Petra, la sciatrice che viene dalla Slovacchia, il mio amato Paese al quale ho regalato il primo oro della storia mondiale». Il papà gongola, gli chiediamo se e quando rinnoverà il contratto a Livio e lui risponde in un centesimo di secondo: «Fino a quando Petra scierà, se vuole firmiamo subito».
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