di Carlo Monti
O ggi Londra apre i suoi stadi per ospitare la 30ª edizione dei Giochi Olimpici. È la terza volta che la capitale del Regno Unito organizza l'Olimpiade, dopo le edizioni del 1908 e del 1948, la prima legata al nome di Dorando Pietri (anche se l'Italia vinse due ori con Porro nella lotta e Braglia nella ginnastica), la seconda rimasta storica, perché ha segnato la rinascita dell'idea olimpica, dopo l'immane tragedia della seconda guerra mondiale e uno stop di dodici anni (in cui vennero annullati i Giochi del 1940 e del 1944). Ai Giochi del '48, disputati tra il 29 luglio e il 14 agosto, c'ero anch'io in una squadra composta da 183 uomini e 19 donne, convocato per correre la staffetta 4x100 in terza frazione, insieme con Michele Tito, Enrico Perucconi e Tonino Siddi.
Senza guerra avrei fatto l'Olimpiade del '40 e anche quella del '44, ma proprio l'idea di voler andare a tutti i costi ai Giochi mi aveva spinto a riprendere l'atletica nel '46, nonostante il lavoro (allora si viveva da dilettanti) e i 28 anni di età, che per un velocista, soprattutto dopo uno stop di tre anni, sono tanti. La medaglia di bronzo nei 100 metri agli Europei del '46 aveva rafforzato la mia speranza olimpica. Andare a Londra era anche un modo per rendersi conto che si tornava alla vita, che il ricordo della guerra non poteva essere dimenticato, ma almeno elaborato e superato. Forse per questo quel viaggio verso Londra resta bellissimo nei miei ricordi: il raduno all'hotel Gallia di Milano, la divisa azzurra, il treno, il traghetto da Calais a Dover e poi ancora il treno fino a Londra. Ci avevano sistemato a Richmond Park, dove ci attendeva una costruzione, che era servita, durante la guerra, per i soldati feriti. A Tosi (che poi vinse l'argento nel lancio del disco), il grande rivale di Consolini, che fu oro, era capitato un letto troppo corto e fu costretto a unirne due per evitare di riposare con i piedi scoperti.
Eppure sembrava tutto molto bello, compresa la mensa, che offriva un menù discreto, ma poco abbondante. Ma quando si è giovani, si riesce a sorridere di tutto e per caso incontrai al villaggio un pugile argentino, che mi disse: «Vieni a pranzo con me». Nella palazzina degli argentini, mi offrirono una bistecca ottima ed abbondante e quello era diventato un appuntamento giornaliero, che mi consentì di avere le energie giuste per andare forte.
La marcia di avvicinamento alla gara, con allenamenti su prati verdissimi, anche se sotto la pioggia, non era stata semplice. C'era un problema legato al secondo frazionista: Perucconi o Bassetti? Il primo era il titolare, ma Bassetti sembrava più veloce. Però era reduce da un infortunio muscolare che, nel test decisivo, si ripresentò e costrinse il nostro ct Giorgio Oberweger ad una scelta obbligata. Finalmente si cominciò a gareggiare: finimmo in una batteria con Stati Uniti, Brasile e Turchia. Il secondo posto, dietro agli americani, ci fece capire che se fossimo stati veloci e attenti nei cambi saremmo saliti sul podio. La finale era programmata per domenica 7 agosto: pioggia, pista pessima, massima tensione, anche per la paura di sbagliare. Invece tutto filò liscio: terzo posto in 41"5, dietro a Usa e Gran Bretagna. Poi la grande sorpresa: gli Stati Uniti vennero squalificati, noi salimmo sul podio da secondi e ci venne consegnata la medaglia d'argento.
Ma non era finita. Sul treno che ci riportava a casa si affacciò nel nostro scompartimento l'ingegner Guabello, segretario della Federatletica: «Ragazzi, si cambia medaglia. Hanno riqualificato gli Stati Uniti, siete terzi. Ecco il bronzo per voi». Proteste di gruppo, ma contenute. A me ovviamente dispiaceva, ma sapevo che era giusto così: non avevo mai creduto ad un cambio irregolare degli americani.
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