Trent’anni di Febbre a 90°: perché in fondo siamo tutti Paul Ashworth

Un cult che ha attraversato indenne le generazioni perché unisce tutti sotto la fede laica per il calcio

La vita di Paul è interamente scandita dall'Arsenal
La vita di Paul è interamente scandita dall'Arsenal

Si può davvero misurare lo scorrere del tempo affidandosi al ritmo delle stagioni calcistiche? È possibile levigare tutti gli angoli più ruvidi della propria esistenza proiettando le proprie aspirazioni e speranze dentro a quelle di un club? La risposta è un tizio dall’aria british che scuote il capo dall’alto in basso: si chiama Nick Hornby e, trent’anni fa - era lo sfumato 1992 - dava alle stampe un romanzo che è riuscito a fendere indenne intere generazioni. Chi non avesse letto il libro ricorderà sicuramente la pellicola, uscita nel 1997: Colin Firth è un giovane insegnante di lettere con un vizio impossibile da sopprimere, l’Arsenal.

Oggi puoi parlarne con un sessantenne o con un ventenne e il risultato non cambierà. Tutti i più autentici calciofili si identificano in Febbre a 90°. Come è accaduto? Non serve massaggiarsi le tempie più di tanto per spremersi una risposta. In fondo la spiegazione è semplice. Prima o dopo ci siamo sentiti tutti esattamente come Paul Ashworth, il protagonista di questa storia.

Sai, quando non hai nient’altro l’Arsenal ti riempie tutti i vuoti e così finisce che ti preoccupi quando perdi con gli Spurs, quando dovresti piuttosto preoccuparti di te stesso”, racconta il nostro parlando a lettori e spettatori agganciati a pagine e tubi catodici. Il processo identitario arriva quasi naturale: se la vita non ti viene giù come l’avevi immaginata, c’è sempre la tua squadra di calcio che può irrorarla di speranza. Ci sarà sempre una nuova stagione che comincia. Una grande famiglia che ripone fiducia nelle tue stesse cose. Nel calcio, se perdi un derby, puoi sempre rifarti la volta dopo: in fondo, sostiene Paul, è piuttosto confortante e per nulla infantile.

Solo che Ashworth, per sua stessa ammissione, “non supererà mai questa fase”. Non ci sarà mai un “dopo Arsenal”: se i gunners sono la vita e la vita sono i gunners, quello è un luogo metafisico destinato a non esistere. Non servono certo capacità divinatorie per vaticinare le fessure di questo ragionamento totalizzante. Perché far dipendere la propria felicità dalle prestazioni di qualcun altro, anche se si tratta dei tuoi idoli calcistici, è uno stillicidio che conduce sul bordo dell’insensatezza. Perché quando il monocromo pallonaro viene messo in stand by da un evento imprevisto, come l’avvento della collega Sarah nella vita di Paul, certi universi paralleli rischiano seriamente di collidere, fino a collassare.

Il calcio ha significato troppo per me e continua a significare troppe cose. Dopo un po’ ti si mescola tutto in testa e non riesci più a capire se la vita è una merda perché l’Arsenal fa schifo o viceversa“, rimugina Paul, avvolto nel letto, fissando il soffitto. Le cose però sono destinate a svoltare. Sarah smussa le sue rigidità e mette in un cassetto le preclusioni aprioristiche, trascinandosi anche a qualche partita. Alla fine si troverà in strada a festeggiare la vittoria del campionato 1988/89 e forse, a quel punto, capirà quello a cui non era ancora arrivata.

Certo, il percorso tracciato da Hornby ha il sapore agrodolce della redenzione. Dopo aver devoluto una cospicua parte del suo tempo ad un club calcistico, Paul comprende che è arrivato il momento di staccarsene relativamente. Che determinare il proprio umore e quello delle persone che ti circondano in funzione dei risultati di una partita di calcio non è una fede, ma una iattura.

Che nella lunga parentesi della vita, il pallone e tutto quel che ne consegue devono disintossicarti, non intasarti le vene. Va bene tutto, d’accordo. Però adesso facciamo ad alzata di mano e proviamo a vedere quanti di noi in fondo, anche soltanto per lo spazio di qualche settimana, non si sono sentiti esattamente come Paul Ashworth.

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