Spunta l’altro libretto di Mao (ma è quello degli assegni)

Una rivista di Pechino rivela i conti segreti del Grande timoniere: al momento della morte un patrimonio di 55 milioni di euro

Alla fine è tutto oro quello che luccica. Ovunque, anche nella terra che più di ogni altra aveva messo al bando la febbre dell’oro abolendo la proprietà privata e uccidendo «nella culla», così diceva il suo leader, lo spirito del capitalismo. C’era scritto, in termini molto elementari e dunque molto espliciti nell’opera che nel secolo scorso ha «stracciato» quanto a tiratura tutti gli altri libri scritti al mondo: il Libretto rosso di Mao. Adesso è venuto alla luce l’altro libretto di Mao, quello degli assegni, dei risparmi, dei conti correnti, insomma della capitalizzazione.
È stata una rivista del Partito comunista cinese, lo Dangshi Wenyuan, a rivelarlo, più di trent’anni dopo la morte del fondatore e le cifre sono ora a disposizione del pubblico sul sito della televisione di Stato. Al momento della morte il 9 settembre 1976 Mao possedeva due conti nella stessa banca in due diverse filiali di Pechino. La prima, quella degli spiccioli, era la filiale Schongnanhai aperta nei Giardini Imperiali all’interno della Città Proibita: dove c’era meno di un milione di yuan, pari a circa 700mila euro. Il gruzzolo vero e proprio si trovava nella sede centrale di Pechino: 75 milioni di yuan, 55 milioni di euro.
Il conto era intestato alla «Cellula numero uno del Comitato Centrale» del Partito comunista. E tutto il mondo ne ignorava l’esistenza, tranne Mao, Zhou Enlai finché campò e due «guardie del corpo» del Grande Timoniere. Uno è sopravvissuto ed è rimasto in qualche modo il custode del «tesoretto». Non ne era a conoscenza, a quanto pare, nemmeno la moglie di Mao, Qiang Qing, pur molto influente politicamente come capo riconosciuto della Banda dei Quattro, che condusse la Rivoluzione Culturale e che alla morte del marito finì in carcere, condannata all’ergastolo abbreviato solo dal suo suicidio.
Conto segreto non significa necessariamente arricchimento illecito. Mao riceveva dallo Stato uno stipendio simbolico. I soldi li faceva come scrittore, attraverso i diritti d’autore, che continuano ad affluire: oggi il «tesoretto» vale oltre 100 milioni di euro. Mao, va aggiunto, non è stato il solo dittatore a arrotondare gli introiti come scrittore: anche Hitler non se la passava male con il copyright di Mein Kampf. Però non aveva abolito la proprietà privata e soprattutto non arrivò mai alle tirature del Grande Timoniere. Che scrisse diversi libri, compreso uno di poesie che già battè ogni record del genere: oltre 85 milioni di copie. Trecentoventicinque milioni di copie furono stampate delle sue «Opere scelte». Ma la sua fama «letteraria» si basa quasi unicamente su un volume: il Libretto rosso, appunto. Negli anni della Rivoluzione Culturale di questo catechismo maoista si fecero 3.200 edizioni, con una tiratura totale di 965 milioni di esemplari, venduti ai civili, più altri 45 milioni distribuiti ai militari. Il totale è dunque al di sopra di un miliardo, vale a dire quasi una copia per ogni cinese.
Più quelli, non va dimenticato, che abbiamo comprato noi senza esserci obbligati. Il Libretto è stato tradotto in 14 lingue e per alcuni anni è stato un best seller, portando nelle sue tasche ulteriori l’equivalente di 175mila yuan, versati quasi tutti in franchi svizzeri.

Se lo contendevano degli adolescenti con la febbre della rivoluzione puritana, contestatori spesso elitari da Berkeley a Milano, parigine emaciate che credevano di travestirsi da mondine delle «comuni» dello Guangsi. Credevano di partecipare a una «crociata degli innocenti». Facevano da schermo al massacro di milioni di innocenti e arricchivano un «tesoretto» privato.

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