STAMPA LIBERA (NON A CARICO)

«Così il governo autoritario cancella ogni dissenso»: queste le parole con cui il Manifesto di ieri lanciava un grido di dolore già risuonato, con espressioni analoghe, in molte sedi politiche e in molte redazioni. Un non addetto ai lavori potrebbe pensare - di fronte a simili luttuosi annunci - che si stia ripetendo in questi giorni, per decisione d’un potere oppressivo, ciò che avvenne dopo il discorso mussoliniano del 3 gennaio 1925 a Montecitorio: leggi eccezionali, fine di ciò che restava della stampa libera, facoltà ai prefetti di sciogliere ogni organizzazione non allineata, insomma la dittatura. Se sta succedendo questo, penserà chi legge queste righe, lo strano è che non me ne sono accorto.
Non ve ne siete accorti, voi lettori, non se n’è in sostanza accorto nessuno, perché non è successo niente. L’Italia rimane uno Stato di ormai radicata democrazia, il Parlamento funziona, il Quirinale vigila, la Consulta controlla. Ma allora quale evento ha suscitato l’allarme al quale si è associata la federazione della stampa? È presto detto: l’ha suscitato la riduzione, in «finanziaria», dei fondi per l’editoria. Questa misura mette in difficoltà alcune testate politiche ripartite equamente tra sinistra e destra - Il Manifesto e Liberazione da una parte, La Padania e Il Secolo d’Italia dall’altra - che hanno un qualche peso nel Palazzo ma una diffusione modesta o infima. Lo sbandierato attacco ai valori della democrazia si risolve, a ben guardare, in una questione di posti di lavoro.
Non è una questione da poco. Capiamo benissimo, come colleghi, l’ansia di chi teme di veder morire il giornale in cui lavora, e con esso svanire la sua sicurezza economica. Ogni taglio è doloroso. Ma in tanti hanno predicato, per la crisi dell’Alitalia, che a determinate esigenze di efficienza e di redditività bisogna, in una società di mercato, inchinarsi. Auguriamo che le testate minacciate sopravvivano e che i giornalisti vi rimangano. Ma non possiamo associarci al vizio politico e sindacale d’ammantare istanze e speranze legittime di gruppi e corporazioni con il mantello dei supremi ideali. Siamo per il pluralismo giornalistico, ben venga ogni nuova iniziativa in quel campo: ma non venga a spese del contribuente.
In sé l’idea che l’informazione debba avere qualche aiuto pubblico, per il valore di libertà in essa contenuto, è anche accettabile. A quell’idea era stata tuttavia data un’attuazione da basso impero, il sostegno all’editoria era diventato una greppia per organi di stampa fantomatici o quasi che rappresentavano partiti o istituzioni o chissà cos’altro inesistenti o quasi. L’apporto che questa variegata folla di pubblicazioni dava all’informazione, al dibattito politico, alla cultura era discutibile: e comunque spropositato nel confronto con il denaro profuso. Una vergogna: perpetrata alle spalle di cittadini ignari o distratti; e inascoltati, se protestavano. Altro che la «museruola» di cui Furio Colombo parla, riferendosi al giro di vite.
Ai giornali di partito - lo ha registrato Panorama in agosto - è andato un miliardo di euro in sette anni. Non siamo alle cifre dell’Alitalia, ma si tratta pur sempre d’una bella somma. Il contribuente dovrebbe insomma sostituirsi, con soldi suoi, ai lettori che latitano. Quando la Democrazia cristiana era il partito egemone Il Popolo vendeva poco o niente. Idem come sopra per l’Avanti!, anemico anche nella stagione florida del Psi. Ma perché farne carico a chi paga le tasse? C’è o c’era di peggio degli organi di partito. Ci sono o c’erano i foraggiati «Granchio», «Chitarra», «Jam». Senza i quali, secondo certe Cassandre, l’informazione dovrebbe sentirsi orfana e imbavagliata.
Ai giornalisti come categoria - anche qui preferisco evitare il termine corporazione - questa situazione pone un dilemma serio. Non dobbiamo essere ipocriti. Tuoniamo - su tanti fogli e libri o da tante emittenti radiofoniche e televisive - contro gli sprechi immani della politica e dell’amministrazione.

Denunciamo le sovvenzioni eccessive e qualche volta invereconde che la politica e l’amministrazione incamerano. La decenza deve trattenerci dal cambiare d’improvviso registro, diventando fautori della spesa facile - con questi chiari di luna - solo perché siamo direttamente coinvolti.
Mario Cervi

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