Stasera l'Italia, Donadoni solo contro tutti

Il tecnico, costretto a fare i conti col fantasma del ct mondiale e con l'Olanda di Van Basten, comincia l’avventura più difficile: "Fondamentale per la mia carriera"

Stasera l'Italia, Donadoni solo contro tutti

Berna - Andiamo, ragazzi: è l’ora di giocare. Stasera a Berna, nello stadio che ci regalò una perla di Sandro Mazzola e una prodezza di Zenga, l’Italia di Roberto Donadoni sgabbia dall’europeo, il torneo tabù del calcio azzurro. L’accoglienza dei paisà è di quelle che lasciano il segno: in duemila all’aeroporto, cantano e ballano inneggiando al capitano ferito, Fabio Cannavaro che nel cuore di tutti noi sta e deve accomodarsi in tribuna con le stampelle. Può essere una piccola spinta dinanzi alla marea arancione che invade e colora il cantone di Berna da qualche giorno. La Nazionale ha sul petto il fregio dorato del quarto titolo mondiale: l’aspettano al varco per fargli la festa. Il girone di partenza è una montagna da scalare: si comincia con l’Olanda, si chiude con la Francia, la vetta più alta, passando dal falsopiano della Romania. Stasera davanti spuntano gli orange, un tempo modello e riferimento del calcio spettacolare e moderno. Vinsero in Germania, nell’estate dell’ottantotto, l’unico trofeo, grazie a un gol memorabile di Marco Van Basten, il ct dei nostri giorni. Altri tempi, altri campioni in circolazione. Si lamentano per l’infortunio toccato a Robben, dopo gli incidenti di Van Persie e Babel. Magra consolazione per chi non può indossare il giubbotto anti-proiettile di Cannavaro. Da trent’anni non riescono a metterci sotto: il precedente malinconico è fissato in Argentina, mondiale del ’78, con quella fucilata di Haan che Zoff, debole di vista, vide partire in ritardo. «Non tocco ferro né dormo tranquillo» confessa Donadoni, allergico a ogni forma di macumba.

Andiamo, ragazzi: è l’ora di giocare. La maggiore suggestione arriva dall’intreccio dei due ct, Marco Van Basten e Roberto Donadoni, due tra i più giovani in panchina: insieme trasformarono il Milan di Sacchi in una gioiosa macchina da guerra e contribuirono alla fama di Fabio Capello mister scudetto. «Il timbro di Arrigo ha lasciato il segno» sostiene il ct azzurro prima di smentire, con decisione, una frase feroce destinata a Capello pubblicata su un giornale tedesco. Lui e Marco si conoscono da sempre e si stimano in modo sincero, si frequentano ora sui prati di golf dove giocano con pari abilità ma sono già separati da scelte effettuate. Uno va, l’altro, forse, resta.

Van Basten in agosto passa all’Ajax, Donadoni deve superare l’esame più complicato, la vera laurea honoris causa. Roberto è un bergamasco tosto e silenzioso, ha un contratto in tasca che ne prevede la riconferma ma solo in caso di risultato decoroso, diciamo dal quarto posto in su. Dicono (Abete & C) di stimarlo ma fino a un certo punto. Non dev’essere avvincente debuttare all’europeo, il primo, dopo una carriera scandita dall’esperienza in provincia (Livorno), con la sagoma di un viareggino sull’uscio, Marcello Lippi il ct campione del mondo. Dovesse andare male, sarebbe lui l’erede designato e desiderato, dai federali oltre che dallo spogliatoio. Inutile far finta di niente: i due conoscono la realtà. Anche nei convenevoli giocano di fioretto: Lippi continua a immaginare un futuro sulla panchina dell’Italia, Donadoni non lo cita neanche per scommessa.

«Questo esordio è una tappa importante della mia carriera, non vedo l’ora di cominciare» detta Roberto dopo l’ultimo test sull’erba traditrice («si scivola troppo» la denuncia) dello Stade de Suisse. Ha il volto disteso e la parola sciolta: neanche un velo di tensione. Eppure viene considerato l’incognita della spedizione azzurra nonostante i complimenti ricevuti da colleghi esperti (Capello e Ancelotti) e i giudizi riscossi nello spogliatoio azzurro. Sembra tenero come un grissino e invece è fatto di ferro il ct, cresciuto nei due anni in personalità e sicurezza.

Nelle scelte si lascia guidare da una maturità inattesa, mixando mestiere (Panucci e Materazzi) e brillantezza (De Rossi, Di Natale). «Loro sanno quel che devono fare» chiude prima di tornare in albergo. E di fissare l’orizzonte di Berna per scoprire la sagoma di Lippi, dietro le montagne svizzere.

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