Lo Stato gli deve milioni ma non paga: lui si uccide

Gestiva due autorimesse per auto sequestrate. Si è sparato sotto il Palazzo di giustizia torinese. In una lettera accuse anche al decreto Bersani

Simona Lorenzetti

da Torino

Che martirio tutte le settimane essere costretto a bussare alla porta del Palagiustizia e chiedere dei soldi, quando per pagare gli stipendi ai dipendenti, quando per saldare la fattura di un fornitore. Che rabbia poi uscire da quella stessa porta con un pugno di mosche e dover dire alle banche di aver pazienza. Rocco Agostino, 57 anni, padre di due figli, titolare di due autorimesse, era stanco di fare la questua. Era stanco di scoprire mese dopo mese che lo Stato, suo debitore, anche questa volta non avrebbe pagato. E sì che Agostino ogni giorno accoglieva nelle sue rimesse tutte le auto che il tribunale, la prefettura e le forze dell'ordine sequestrano. E da mesi aspettava che lo Stato saldasse il conto: il suo credito era talmente cresciuto da mettere a repentaglio la solidità economica delle sue aziende. Poi, a complicargli la vita, anche il decreto Bersani che a luglio ha determinato il blocco dei pagamenti.
Ieri l'imprenditore ha deciso di farla finita, in modo plateale perché tutti sapessero cosa c’era dietro al suo tragico gesto. Alla guida della sua Alfa 166 è uscito dal deposito di Nichelino, dove hanno sede gli uffici della sua azienda, e si è diretto al Palagiustizia. Ha accostato l'auto a pochi passi dall'ingresso principale, in corso Vittorio Emanuele. Non ha spento neanche il motore della berlina. In un impercettibile istante ha estratto dalla tasca una calibro 38 e si è sparato alla tempia, uccidendosi. Dietro di lui un automobilista in coda ha assistito alla scena e ha dato l'allarme. Sono arrivati i carabinieri e i magistrati. Inutile l'arrivo dei soccorsi. Rocco ha lasciato un biglietto, una lettera scritta su un foglio di quaderno. «All'autorità dello Stato», l'incipit e poi a seguire la richiesta di avere, se non tutto, almeno un acconto di quanto lo Stato gli doveva. Parole quasi illeggibili. Su quei sei fogli, intrisi di sangue, l’imprenditore ha chiesto per l'ultima volta ciò che gli era dovuto.
Agostino da anni gestiva due autorimesse dell’Aci. Già in passato aveva chiesto aiuto a un avvocato per entrare in possesso dei soldi che lo Stato gli doveva per quel servizio. Nel 2000 aveva fatto causa al ministero dell'Interno, della Finanze e della Giustizia: un'istanza di pagamento del valore di 29 miliardi di lire per aver recuperato, per vent’anni, auto sequestrate. Aveva perso e si era ritrovato anche a pagare le spese processuali. Adesso era di nuovo nella situazione di vantare dei crediti, soldi che gli avrebbero permesso di mantenere le dieci persone alle sue dipendenze e anche di risanare l’investimento fatto a Cuba dove aveva comprato un villaggio turistico, poi distrutto da un uragano. Attualmente custodiva un parco auto di 5mila macchine bloccate nella sua rimessa dai tempi lunghi della giustizia italiana, per ciascuna di esse avrebbe dovuto ricevere ottanta centesimi al giorno. A complicare la situazione finanziaria, stando anche a quanto raccontato da alcuni suoi dipendenti e dal suo avvocato Vincenzo Saia, ci si era messa pure la riforma Bersani. «A luglio, con l’entrata in vigore della nuova legge - ha spiegato il legale -, c’era stato il blocco dei pagamenti. E per questo era molto preoccupato. Ma non pensavo che arrivasse a fare una cosa del genere».
Il decreto Bersani, infatti, avrebbe cambiato le procedure di pagamento, trasferendo le competenze alla Banca d’Italia, la quale avrebbe dovuto liquidare le fatture. Gli uffici contabili della Procura sottolineano che il credito che l’imprenditore vantava era di 42mila euro e che per la metà era già stata avviata la procedura di liquidazione. I restanti sarebbero arrivati in un secondo momento. Ma Agostino Rocco non custodiva solo le auto sequestrate dalla Procura, ma anche quelle del cui sequestro hanno deciso il Tribunale e la Prefettura.

Negli uffici di Nichelino i dipendenti dell’imprenditore dicono che il loro titolare fosse convinto di poter vantare una cifra ben superiore, pari a circa un milione di euro. «Oggi solo i poveracci pagano, lo Stato no - ha commentato amaro uno dei suoi dipendenti accorso al Palagiustizia -. I processi non si fanno mai e le auto ci tocca tenerle gratis».

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