La stonata prova d’orchestra in scena a Palazzo Chigi

Paolo Armaroli

La riforma costituzionale della Casa delle libertà non ha superato l’esame referendario ed è colata a picco. In tutto questo Romano Prodi ci ha messo del suo. Nel corso del defatigante iter parlamentare è stato proprio lui a impedire il minimo accordo tra centrodestra e centrosinistra. I suoi triplici no, quasi che non ne bastasse uno solo, sono risuonati di continuo nelle aule di Montecitorio e di Palazzo Madama. La sola idea di un passaggio dalla forma di governo parlamentare al cosiddetto premierato faceva venire l’orticaria all’attuale presidente del Consiglio. Cascasse il mondo, affermava nei giorni pari e in quelli dispari che la Costituzione del 1948 non si tocca. Adesso che la riforma costituzionale è andata ai pesci, Prodi da un lato non può fare altro che piangere lacrime da coccodrillo ma dall’altro è talmente messo male che non può neppure confidare nella Carta repubblicana. Che soprattutto per lui sembra abbaiare alla luna. Ma sì, una grida manzoniana e nulla più.
Se da una trentina d’anni si fa un gran parlare di riforme costituzionali, una ragione ci sarà. Com’è noto, i lavori dell'Assemblea costituente tra il 1946 e il 1947 furono dominati dal complesso del tiranno. Non solo di quello che era passato dagli altari del Ventennio alla polvere di Piazzale Loreto, ma anche di quello che di lì a poco si sarebbe materializzato qualora nelle elezioni del 18 aprile 1948 il fronte popolare nascostosi dietro la figura di Garibaldi avesse sconfitto la Dc e i suoi alleati di democrazia laica. Perciò si preferì dar vita a un Potere esecutivo piuttosto debole e a un presidente del Consiglio con poteri talmente limitati da non potersi permettere di revocare un proprio ministro. Pur tuttavia la nostra Costituzione all’articolo 95 gli assegna un compito niente affatto trascurabile. Dice infatti che «il presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri».
Secondo una infelice battuta del nostro, una gaffe bella e buona, il Papa dopo tutto può sempre farsi difendere dalle sue guardie: la guardie svizzere. Magari saranno poca cosa, ma è pur sempre meglio di niente. Ecco, Prodi non può fare assegnamento neppure su quelle. Non ha un proprio partito. E si regge grazie a un pulviscolo di liste e listerelle che fanno da contorno ai Ds, alla Margherita e a Rifondazione comunista. Se si volta indietro, può contare sulle dita di una mano i suoi fedelissimi. Ora un uomo così, non potendosi valere del diritto della forza, avrebbe tutto l’interesse ad appoggiarsi alla forza del diritto. E dunque anche a quella dell’articolo 95 della Costituzione. Un salvagente per chi come lui a ogni momento rischia di affogare.
Vorrebbe, poveretto, ma non può. Da sei mesi, con una preoccupante accelerazione nelle ultime settimane, l’indirizzo politico governativo assomiglia ai fiumicelli carsici. Appare e scompare di continuo. E, soprattutto, cambia sempre percorso. La Finanziaria, poi, è come la pelle di zigrino. Si allarga e si restringe a fisarmonica, strattonata di qua e di là da questo o quel ministro. Alla commissione Bilancio di Montecitorio la maggioranza è talmente soddisfatta di questo governo che ha presentato un numero di emendamenti pressoché uguale a quelli dell’opposizione. Sottosegretari ed esponenti di centrosinistra come il segretario di Rifondazione Giordano scendono in piazza sparando contro il quartier generale.

E in tanto bailamme ogni giorno di più appare chiaro che il presidente del Consiglio non ha la forza di dirigere un bel niente e tanto meno di mettere in riga ministri che straparlano a ruota libera. La felliniana prova d’orchestra è più che mai all’ordine del giorno. E ormai abbiamo un governo senza capo né coda.
paoloarmaroli@tin.it

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