Storia dei Greci e dei Romani

Chi erano i Greci? Questa domanda dà il «la» al terzo volume della «Storia dei Greci e dei Romani», dal titolo Agli albori del mondo greco, in edicola da domani con il Giornale. Un’occasione ghiottissima per chi vuole saperne di più sul prisma di un universo spirituale, morale e politico che per tanti aspetti è alle fondamenta della nostra contemporaneità.
Non difettano fonti e documenti per cercare la risposta, confezionata in queste ottocento e passa pagine con il metodo storico (rinunciando ai misteri di Creta, si parte dall’archetipo miceneo, fortezze di roccia e di bronzo, lampi d’oro e fragori di guerra, tavolette d’archivio che già parlano un greco intellegibile) in capitoli approfonditi, specialistici che, integrandosi, dipingono un affresco o, meglio, ci proiettano un film che ha il pregio dell’unitarietà. Per nostra fortuna, i Greci coltivarono una passione: raccontare.
L’ultima edizione del Thesaurus Linguae Graecae, la banca dati informatica, made in USA, che include la (quasi) totalità di quanto scrittori e poeti hanno affidato un tempo ai loro papiri, e che ha varcato la devastazione dei millenni, ci regala oltre sessanta milioni di battute: un meraviglioso terreno di caccia per chi va alla ricerca della carta d’identità spirituale di questo popolo. Incrociando le parole antiche con i risultati dell’indagine materiale, campo dell’archeologia, gli studiosi ci propongono il profilo - anzi, i profili - di una gente che non mai rinunciato alla sfida intellettuale più alta: conoscere l’interezza del mondo attraverso se stessa. Gente che non ha mai voluto vivere come bruti, ma sull’onda di un anelito: seguire la conoscenza e la virtù, perfezionandosi all’infinito.
Ecco il capitolo sull’aretè, la «nobiltà» di intenti e di operato che genera l’aristocrazia, un complesso di ideali, prima e più che una classe dirigente. Di pagina in pagina, si gusta la rappresentazione di una dualità appassionata. Pessimisti, in bilico sul nichilismo, allarmati dall’effimero, i Greci definirono l’uomo «un’ombra». Pindaro rincarò: «sogno di un’ombra». Scarseggiavano le visioni ultraterrene consolatorie. L’aldilà, al meglio, era una desolazione per cui - parola dell’Achille omerico - un signor nessuno, vivo, era preferibile a un principe defunto; al peggio, era un pantano di fievoli spiriti fangosi. Eppure si lavorò all’antidoto: la memoria di una vita, esaltata dal kleos (la «gloria») di una bella morte (soprattutto se indorata dal canto dei poeti), era la vittoria sul nulla. Fu la matrice degli eroi, splendenti fantasmi che irraggiavano benessere e sicurezza sulla collettività.
L’uomo era poca cosa, preda del capriccio di dèi non sempre benevoli. Ma aveva qualcosa che gli immortali, nel caos proprio perché onnipotenti, non riuscivano neppure a immaginare: la legge. Regola razionale del vivere insieme, che trasformava il selvaggio nell’entità più duratura e perfetta, la culla amniotica di ogni greco, la polis, la città, con i livelli ben articolati dell’acròpoli, «alta», sacra, con il tempio, linea di labile contiguità con il cielo, e della laica, «bassa», agorà, mercato e parlamento, struscio e accademia permanente di filosofi in transito o di stanza nei porticati d’ombra, il tutto circoscritto dalle mura, eccetto che nell’anomala Sparta, fiera di non avere altri spalti che i petti dei suoi cittadini guerrieri.
Emerge un dato che può insegnarci molto, in questa nostra strettoia politica tra centralismo e particulari regionalistici.

I Greci si sdoppiarono in un federalismo culturale ed etico: ultracampanilisti (ogni polis aveva dei, monete, tribunali propri), quando si trattava di contrapporsi al mondo (l’oriente ricco, ma imbelle; il nord vigoroso, ma brutale) i Greci gridavano alto di essere il «mezzo», cioè il meglio, e per sangue, religione, lingua, coscienza e senso della vita, di essere loro, gli unici, inconfondibili Elleni.

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