Storia di Ghali, la voce araba degli italiani

Fuggito da Nablus, emigra in Italia, ottiene la cittadinanza e si arruola nell’esercito. Oggi è il consigliere del generale Gerometta

Gian Micalessin

da Tibnin (Libano)

È la voce del generale. Una voce araba su un volto palestinese. Si chiama Ghali Amjad, ha 37 anni, è nato in un campo profughi di Nablus, è fuggito alle disgrazie palestinesi per finire in quelle libanesi. Ma ci è arrivato con una divisa del nostro esercito, i gradi da tenente e il passaporto italiano in tasca. Strana storia quella di Ghali. Voleva fare l’avvocato, difendere i suoi concittadini dalla giustizia militare israeliana. Un destino burlone l’ha trasformato nell’uomo più ascoltato da un generale.
Il generale è Paolo Gerometta, comandante dei 2.500 militari italiani in Libano. Appena fuori dal quartier generale di Tibnin, Ghali diventa la sua ombra, la sua lingua. Il tramite inseparabile per dialogare con sindaci, notabili, ufficiali o semplici contadini. «Ma non sono solo un traduttore - tiene a precisare Ghali con il suo sorriso da bravo ragazzo -, io sono la fiducia da dare e ricevere, sono l’arabo che parla agli arabi, garantisco con la mia divisa che degli italiani ci si può fidare». Lo dice e si batte il petto. Come dire «qui batte un cuore italiano». Te lo rispiega. «Tradurre non basta, l’arabo è espressione, sentimento, sfumatura. Fiducia e comprensione sono uno sguardo, una smorfia, una pronuncia, un semplice gesto. Non puoi studiarlo. Devi averlo vissuto sulla pelle e devi farlo sentire. Solo se sei nato in campo profughi hai le parole giuste per chi è sopravvissuto alla guerra».
La guerra di Ghali si chiama intifada e gli precipita addosso a 17 anni. Lui è il figlio di un’insegnante. Una delle poche di quel campo disgraziato.Nel 1948 la sua famiglia è fuggita da Jaffa. Suo padre per un po’ ha provato la vita all’estero, il lavoro in Germania, ma alla fine lì è tornato, nel campo di Nablus. Lì è nato Ghali. Lì s’è fermato il tempo della sua famiglia. Lì stava per fermarsi anche il suo, sepolto dai sassi della rabbia palestinese e dalla repressione israeliana. «Non ho mai raccolto una pietra, sognavo di combattere studiando legge, tirando fuori di galera i miei fratelli meno fortunati, ma il sogno è svanito. Le università israeliane ci chiudevano le porte in faccia, quelle giordane avevano il numero chiuso, la rivolta senza fine divorava i risparmi di famiglia. Alla fine rinunciai, dimenticai l’università e la laurea in legge, raggiunsi mio fratello in Italia».
Sono i primi anni ’90, Ghali e suo fratello arrivano a Varese, scelgono di lavorare alla periferia della grande e della piccola moda, di aprire un colorificio per tessuti, di passare giorni e notti tra tinture e prodotti chimici. «Non era il mio sogno, ma era meglio del campo di Nablus , meglio di quella prigione - ammette Ghali aggiustandosi con tocco da viveur il foulard azzurro sulla mimetica chiazzata -, però mescolare colori non mi soddisfaceva». Neanche quando la ragazza conosciuta nelle scuole del campo lo raggiunge a Varese, lo sposa, gli regala Hasan, Nadja e Mahmoud. «Una famiglia, tre figli, il lavoro, l’Italia, che volevo di più? Me lo chiedevo ogni volta che tornavo a Nablus. Quando chiedevo ai miei: “Come state?” e non c’era altro da raccontare. Quando vedevo i nostri mondi allontanarsi sempre più. Ma nel mio mancava ancora qualcosa. Mancava il sogno la soddisfazione».
Il destino e la legge glieli regalano nel 2004. Si chiamano cittadinanza italiana e leva selezionata. «Lessi il bando e capii. C’era l’Irak, c’erano italiani in un mondo che non li capiva. C’ero io fatto per loro. Non ero diventato l’avvocato del mio popolo, ma potevo aiutare i miei nuovi concittadini». La leva selezionata, quella pronta ad accogliere nell’esercito chiunque sia utile e all’altezza non gli dice di no. Ghali sgobba, studia, s’impegna. Come avrebbe fatto 15 anni prima ad Haifa o ad Amman. Quel che il destino gli ha tolto gli torna in tasca. In un anno è in Irak con i gradi da tenente.
Quando il Nassirya chiude i battenti non fa tempo a metter piede a casa che si ritrova a Tibnin.

Ora è qui a convincere con un sorriso, un gesto e un abbraccio. «Ma quella - precisa - è solo la mia lingua, per il resto sono un militare del vostro esercito. Obbedisco agli ordini del generale, ma anche a un cuore ormai italiano».

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