Strage di civili a Gaza. Hamas: tregua finita

«Riprenderemo gli attacchi contro Israele, la vendetta sarà devastante»

Gian Micalessin

La morte stavolta bussa all’alba. Sono le sei, il sole è un raggio vermiglio tra ombre lunghe e macerie di una settimana di guerra. L’esercito israeliano s’è appena ritirato. Beit Hanun respira la quiete dopo la tempesta. Donne e bimbi sono risaliti dagli scantinati, dormono appisolati nella prima notte senza spari. La morte è solo in attesa. Alle sei un aereo senza pilota inquadra un formicolio d’umani un chilometro fuori città, ombre nere al lavoro e missili pronti a colpire Israele. Tra quiete ed orrore solo un guizzo d’elettronica. Coordinate via satellite, batterie d’obici che s’attivano, granate da 155 in volo. Un minuto dopo la falce cieca, fragorosa d’una salva d’obici fuori bersaglio. Asma Athamna si sveglia. Ha 14 anni, ma riconosce i rumori della guerra. «Le finestre non c’erano più, la casa di mio zio fumava». Asma e famiglia si buttano in strada tra il fumo di nuove esplosioni. Falciano la mamma e una sorella, feriscono Asma e tutti gli altri. Una grandinata di morte bersaglia senza pietà le sette palazzine dove la famiglia Athamna ha disperso zii nipoti e cugini. Aktram Athamna, un poliziotto dell’Autorità Palestinese, ne conta quindici in dieci minuti. Poi urla e pianti, lezzo di sangue e carne bruciata. Nei vicoli sventrati si raccolgono braccia e gambe amputate, si cerca qualcuno ancora in vita.
Alla morgue arrivano diciannove cadaveri. Molti non hanno fatto in tempo ad uscire dai letti. Otto sono bimbi, sette sono donne, tredici portano il cognome Athamna. Un altro Athamna affonda il dito in una pozza di sangue, si segna il volto, urla la sua rabbia al cielo «Dio vendicaci, Dio vendicaci». L’urlo copre quello dei cinquanta feriti. Negli ospedali non c’è manco posto. I medici del Kamal Adwan di Beit Hanun fanno i conti con i medicinali al lumicino, i macchinari senza elettricità. Abbandonano i morenti, mandano al Shifa Hospital di Gaza chi si può ancora salvare. Fuori la folla ulula dolore e vendetta. I predicatori di professione ne tengono alto il furore. «Lanceremo i nostri missili, i nostri martiri si sacrificheranno, la battaglia continuerà, siamo tutti martiri in attesa», promette Nizar Rayan, responsabile di Hamas nel Nord della Striscia.
A Damasco Khaleed Meshaal, il grande capo in esilio, conferma il viatico della vendetta. «La tregua con Israele è finita: risponderemo con fatti non parole, la lotta armata è pronta a ripartire, una devastante reazione vendicherà le vittime». I fatti rischiano di essere decisamente più gravi delle parole. La strage di Beit Hanoun rischia di innescare conseguenze ancor più devastanti della tragica ripresa degli attentati suicidi. Alcune sono già evidenti. La prima gravissima, perché segnala una svolta senza precedenti, arriva con il comunicato dell’ala militare di Hamas, diffuso subito dopo le dichiarazioni di Meshaal. Il documento invita i musulmani di tutto il mondo a colpire obbiettivi americani per punire l’alleanza di Washington ed Israele. Hamas ha sempre limitato la sua azione all’interno dei territori palestinesi.
Il cambio di direzione fa intuire una sempre maggior influenza iraniana. Teheran è ormai vicina ad erodere il residuo controllo esercitato sui gruppi palestinesi da Egitto Arabia Saudita e Giordania. Contro quelle nazioni spara zero, non a caso, il premier Ismail Haniye che le paragona dell’America e inneggia al «diritto all’autodifesa». L’ultima frase sembra il definitivo ri-allineamento di Haniyeh con l’ala dura, il ritorno alla logica della vendetta e degli attentati suicidi, la rinuncia all’esperimento «politico» avviato prima e dopo le elezioni di gennaio. Haniyeh lo annuncia, dopo la strage di Beit Hanoun l’ipotesi di un governo di unità nazionale con Fatah e il presidente Mahmoud Abbas è definitivamente cancellato. Poco importa che i due vadano a donar sangue assieme. Quella vicinanza, così inconsueta, è solo la retromarcia del fuscello Abbas costretto ad abbracciare il «nemico» Haniyeh per non venir tacciato di tradimento.
E così, dopo la strage di Beit Hanoun tutti appaiono più soli. Hamas, arroccato nella logica della guerra ad oltranza e sempre più vicino a Teheran. I palestinesi senza più interlocutori con il mondo. Il governo di Ehud Olmert che con i suoi errori e le sue incertezze regala terreno all’intransigenza di quanti ormai considerano l’Iran di Ahmadinejad l’unico paladino dei palestinesi e di tutti i musulmani.
Ai diciannove morti palestinesi i Beit Hanoun se ne aggiungono, più tardi altri nove per un funesto totale di 28 morti che trasforma questo mercoledì di novembre in una delle giornate più sanguinose in sei anni di conflitto. Certo i cinque comandanti delle Brigate al Aqsa uccisi in Cisgiordania e i quattro militanti di Hamas colpiti nel pomeriggio a Gaza sono tutti militanti caduti con le armi in mano, ma nel computo di chi incita alla vendetta avranno il loro peso. Per Israele, invece, almeno una di quelle vittime rappresenta un vero successo.

Ahmed Awad e il compagno d’armi incenerito assieme a lui dal missile d’elicottero piovuto nella tarda serata di ieri sulla loro autovettura, era uno dei comandanti di Hamas nella Striscia e il responsabile dei lanci di missili contro Israele. Ma l’eliminazione di Awad ha anche un’indiretta valenza politica perché il giovane comandante era nipote di Mahmoud Zahar, attuale ministro degli esteri di Hamas nel governo dell’Anp.

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