La strategia distruttiva di D’Alema

La prima tappa del «Partito democratico» è stata il seminario diessin-prodian-margheritico del 6 e 7 ottobre a Orvieto. Il cammino dovrebbe proseguire fino a ottobre del 2007, intrecciandosi alla politica quotidiana e agli atti del governo Prodi. È opportuno esaminare i protagonisti di questa impresa: Massimo D'Alema, Guglielmo Epifani, Gregorio Gitti (più interessante dello «scolastico» Arturo Parisi), Walter Veltroni, Piero Fassino, Francesco Rutelli, Fabio Mussi, Franco Marini. Romano Prodi, dalla sua, ha un ruolo così centrale che emerge dalla descrizione degli altri comprimari. D'Alema è oggi un risorto: dopo gli autogol da premier tra il 1998 e il 2000, era stato sottoposto a un violento attacco nel 2005 da parte di Prodi e del Corriere della Sera, in connessione con le vicende Bnl, Antonveneta, attacco a via Solferino. Era arrivato sull'orlo della catastrofe. Se non fossero uscite le conversazioni telefoniche tra Giovanni Consorte e Piero Fassino («Abbiamo una banca») era pronto un suo destino di totale emarginazione. Tutta questa fase lo ha reso fragile come si è constatato dopo il 9 aprile: quando è stato sbertucciato per la candidatura a presidente della Camera dei deputati e, e ancora di più, per quella al Quirinale. Però, alla fine, tra i Ds, il leader più stimato è ancora lui: e così ha ottenuto il ministero degli Esteri e soprattutto lasciato fuori dall'esecutivo Fassino. In questi mesi poi, seguendo una lunga tradizione di ambiguità, tra strizzate d'occhio agli hezbollah e accordo di fondo con il Dipartimento di Stato, si è riconquistato un ruolo di primo piano che sta cominciando a sfruttare in queste settimane. D'Alema, consumata la premiership, è tra i più convinti della necessità di superare la condizione da «ex» della sinistra italiana: ha più volte spiegato che con la dimensione da ex, la sinistra non riuscirà a costruire un solido futuro. È anche convinto dell'esaurimento del partito d'apparato. Persino da segretario del partito puntava più su staff e comunicazione, che sui funzionari tradizionali. Con Bill Clinton aveva cominciato a flirtare sull'Ulivo mondiale cioè su un superamento della classica socialdemocrazia europea. Perché, dunque, a Orvieto occhieggia al Pse, e rivendica il ruolo delle élite politiche nella formazione del Partito democratico? D'Alema non è ormai contrario a un partito-movimento, centrato sulle grandi personalità. Figurarsi. Sta già organizzandosi, ristrutturando la Fondazione Italiani-europei, e risistemando la rete di relazioni. Ma perché allora fare l'ultrapartitista, il classico socialdemocratico europeo? Perché nel processo che si apre non vuole che il timone sia nelle mani di Prodi e del cavalier servente Fassino (più apparatino). Con Fabio Mussi e Cesare Salvi i suoi storici rapporti si sono interrotti: i due marciano verso un accordo con Rifondazione. I dalemiani «scontenti» Gavino Angius e Luciano Violante, poco valorizzati nell'ultima fase si danno da fare anche per conto proprio. Giuseppe Calderola e Gianni Cuperlo ragionano con la loro testa: anche se è difficile pensare che non si coordinino con il loro leader.

Ma è solo un caso se tutti quelli che hanno antichi rapporti con D'Alema, stiano cercando di creare difficoltà a Fassino (e dunque a Prodi)? È un caso se lui stesso ne raccoglie i malumori? Per arrivare al partito democratico c'è una serie di partite (una di quelle fondamentali è nella Cgil e ne parleremo) che se giocate con gli attuali equilibri non avvantaggiano D'Alema. Ecco perché le sue attuali mosse hanno più una finalità destruens che seguire un disegno già definito. Questo verrà quando Fassino e Prodi saranno boccheggianti.

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