Strega, il premio che fa scappare gli scrittori

Ieri il "gran rifiuto" di Daniele Del Giudice, l’unico antagonista di Scurati. Prima ancora le fughe polemiche di Rea e De Luca. Sono lontani i tempi in cui persino Pasolini si autoraccomandava...

All’inizio fu Ennio Flaiano, con Tempo di uccidere. Era il 1947, un’Italia che si risvegliava barcollante da una batosta e nemmeno si sognava di riprendersi così presto e a quel modo. In breve lo stesso Flaiano avrebbe scritto che «il successo alla moda si ottiene con la pubblicità e si paga con la prostituzione alla folla. Il successo ottenuto col merito e pagato con l’indifferenza annoia il grosso pubblico». Non è il caso di stupirsi, dunque, se oggi i premi più ambiti sono quelli che pagano meglio in notorietà e in vendite. Lo «Strega» è uno di quelli, appunto. Che aziona il moltiplicatore delle vendite. Si può umanamente capire, perciò, come in molti si disputino la palma del vincitore, a rischio di colpi bassi e di mezzucci che farebbero arrossire un’educanda, se di educande al mondo ce ne fossero ancora.

Nel 2003, quando vennero rese pubbliche le lettere di Pier Paolo Pasolini a Leonardo Sciascia, spuntarono anche frasi come questa, scritta nel 1968: «Caro Sciascia, ho avuto la maledetta tentazione (gli editori in questo caso sono diabolici) di partecipare al premio Strega: ma in fondo mi diverte. Ho bisogno di voti non tanto per vincere, quanto per non venire a sapere che sono completamente isolato e abbandonato a parte pochi, stretti amici. Spero che tu sia uno di questi e che tu decida di votare per me! Se non hai avuto Teorema fammelo sapere, che te lo faccio mandare. Ti saluto affettuosamente». Pochi anni dopo, nel 1975, poco prima di morire, lo stesso Pasolini scriveva: «Vivo ormai fuori dalla società. Non voto più allo Strega. Mi sono volontariamente emarginato». Proprio lui che ne era stato fra i primi animatori, insieme Guido Alberti e a Maria Bellonci.

Nel film I mostri di Dino Risi, del 1963, l’episodio intitolato «La musa» vede Vittorio Gassman nella caricatura di una dispotica presidentessa di un premio letterario, che fa trionfare uno zoticone passandolo per uno scrittore verace e primitivo, quando le vere motivazioni sono ben altre. Basterebbe a far cadere la pietra tombale dello sberleffo sulla consuetudine ormai ovunque diffusa di premiare, più che l’arte, la vanità dell’artista.

Molti scrittori di rango la pensano allo stesso modo. Sebastiano Vassalli, vincitore dello «Strega» nel 1990, ha deciso di non concorrere più ad alcun premio. Anche Andrea De Carlo non vuole sentirne parlare. E come lui, almeno per quanto riguarda lo «Strega», la pensano Emanno Rea (che l’anno scorso fu trombato a favore dell’esordiente Paolo Giordano) e Erri De Luca. L’ultimo gran rifiuto è quello di Daniele Del Giudice, che ieri ha dichiarato: «Non ho mai avuto e non ho alcuna intenzione di partecipare alla selezione». E dire che già lo davano per vincente, con il suo Orizzonte mobile (Einaudi). A questo punto, alla serata finale del 2 luglio, al Ninfeo di Villa Giulia a Roma, rischiamo di trovare un giovane Antonio Scurati, con il suo Il bambino che sognava la fine del mondo (Bompiani) e quattro sparring partner. Tutte le chiacchiere, in gran parte gonfiate ad arte dagli uffici stampa, hanno infatti mosso il vento in una sola direzione: indicare come i probabili finalisti fossero già stati selezionati a tavolino, più che dalla giuria dei Quattrocento «Amici della domenica», dagli editori stessi. Senza Del Giudice, Scurati si trova come una nazione favorita a un’Olimpiade da cui si siano ritirati gli Stati Uniti, la Russia e la Cina. Insomma, gli vogliono proprio togliere il gusto. Finisce che, a vincere facile, non si diverte più nessuno.

E del resto qualche dubbio sullo «Strega» era venuto già a molti, fin dal 2002, quando la serata conclusiva, in diretta tv su Raiuno, fu affidata alla conduzione di Gigi Marzullo. Il parterre romano ostentava benevolenza, le signore sfoggiavano i gioielli e i signori le cravatte scure e le pochette, proprio come se nulla fosse successo. Vinse Margaret Mazzantini, con Non ti muovere, ottimo libro edito da Mondadori. Ma non era la stessa cosa. Marzullo non è Maria Bellonci, ovviamente, e neanche Anna Maria Rimoaldi, «la Zarina dello Strega», scomparsa due anni fa dopo vent’anni da organizzatrice assoluta.

Un altro segno di sgretolamento mediatico del premio è venuto nel 2007, anno dell’affermazione stra-annunciata di Niccolò Ammaniti.

In video andò Attilio Romita, vessillo del TG1, che parlava dal «Nìnfeo» di Villa Giulia, così disse lui, con l’accento sulla i. Subito dopo chiamò Alberto Bevilacqua «Osvaldo», confondendo lo scrittore di Parma con il fulvo conduttore di Sereno variabile. Più che un premio letterario sembrava Striscia la notizia. Ma senza le Veline.

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