Sui partiti senza democrazia Napolitano si allea con Storace

Paolo Armaroli

Su Francesco Storace, il duro di Alleanza nazionale, se ne sono dette di cotte e di crude. Gli avversari, maliziosi come sono, lo chiamano Refuso perché una sola vocale lo distingue dal segretario del Partito nazionale fascista Achille Starace. I suoi, dagli amici ci guardi Iddio, a buon diritto potrebbero chiamarlo Brontolo, uno dei sette nani, perché un po' come per Gino Bartali anche per lui è tutto sbagliato e tutto da rifare. Abbia o no ragione, sta di fatto che sovente dice ad alta voce, e magari in modo urticante, ciò che molti nel suo partito pensano e si guardano bene dall’esternare se non nelle segrete stanze. Perché nei bar romani gli spifferi sono di casa. Orbene questo Calimero, minoritario per vocazione qual è, non avrebbe mai immaginato di essere baciato dalla fortuna. O, detta altrimenti, di essere nato con la camicia. Sul colore della quale sarà bene non sproloquiare più di tanto. Perché a dispetto delle apparenze, se c’è qualcuno che ha nostalgia più del futuro che del passato, a quanto pare questi è proprio il Nostro.
Baciato dalla fortuna, nato con la camicia. Sì, ma perché? Per la semplice ragione che la consecutio temporum che ci accingiamo a sottolineare ha davvero del prodigioso. Dunque, martedì scorso il Giornale pubblica un articolo di Storace sulla (mancata) democrazia interna dei partiti. O, per dirla con l’imaginifico Refuso, che una ne fa e cento ne pensa, sul «bullismo dei partiti». L’esclusione dall’esecutivo di An da parte di Fini evidentemente se l’è legata al dito. D’accordo, la politica non si fa con i sentimenti, e tanto meno con i risentimenti. E allora badiamo al sodo, andiamo al nocciolo della questione. Storace, che al Senato ha presentato un disegno di legge al riguardo, evoca l’articolo 49 della Costituzione. Che recita: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Con metodo democratico, quindi. Ma questo benedetto metodo democratico, ha ragione Storace, è poco meno che una vuota espressione.
Non lo sosteniamo solo noi, che non abbiamo alcun titolo per ergerci a giudici. No, lo ha sostenuto addirittura il capo dello Stato. E, pensate un po', appena qualche ora dopo la pubblicazione dell’articolo di Storace. A margine del convegno sul sessantennio della Repubblica e della Costituente, tenutosi per l’appunto martedì all’Università di Tor Vergata, Giorgio Napolitano ha dichiarato che per favorire l’accesso delle donne ai vertici dello Stato occorrerebbe una maggiore democrazia interna alle forze politiche. Lette le agenzie, Storace deve aver fatto, a lume di logica, salti di gioia. Perché mai e poi mai avrebbe osato sperare di trovare nel primo cittadino della Repubblica il proprio megafono.
Del resto, iniziative legislative di attuazione dell’articolo 49 della Costituzione stanno spuntando come funghi nei due rami del Parlamento. E al Senato sono già all’ordine del giorno della commissione Affari costituzionali. Nulla è dato al caso, si capisce. Se con questa legge elettorale le segreterie di partito hanno il potere non solo di candidare ma in definitiva di nominare deputati e senatori, e per di più allargano o restringono a piacimento i cordoni della borsa, ragione di più perché la democrazia interna sia disciplinata a puntino e rispettata a dovere. È poi significativo il fatto che oggi siano soprattutto esponenti di spicco dell’ex Pci come Mussi, Salvi, Villone, oltre allo stesso Napolitano, ad agitare questa delicata questione. Perché all’Assemblea costituente fu proprio il Pci - con il suo uomo più prestigioso, Palmiro Togliatti - a mettersi di traverso.

Escluso un controllo sia sulle finalità sia sulla democrazia interna dei partiti, si convenne che il metodo democratico significasse «pacificamente e senz’armi». Ma prima o poi, si sa, c’è sempre un «contrordine, compagni».
paoloarmaroli@tin.it

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