Non è facile giudicare con metro razionale i comportamenti della Fiom-Cgil - e anche dei suoi iscritti, almeno di una certa parte di questi, dello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco - che ieri con il suo comitato centrale si è opposta all’ipotesi di accordo avanzato dal Lingotto (e accettato da Fim, Uilm, Fismic, Ugl e anche da larga parte della Cgil campana) proponendo l’ennesimo sciopero di 8 ore contro «se stessi». Sono tre anni che il quartier generale della compagnia automobilistica ha spiegato come fosse impossibile procedere con la prassi radicatasi nella fabbrica campana e con tassi di assenteismo non più sopportabili. I nuovi investimenti (700 milioni per trasferire la linea della futura Panda) sarebbero stati possibili solo se si fosse garantita adeguata utilizzazione degli impianti. D’altra parte si conoscono i sacrifici fatti dai lavoratori Chrysler di Detroit corsi sotto l’ombrello di Sergio Marchionne, e le condizioni di lavoro degli operai Fiat degli stabilimenti polacchi o serbi. Non ci si può illudere su quel che succederà se ancora si rifiuta la via del recupero della produttività e del superamento della conflittualità endemica.
Eppure il nucleo di lavoratori riunito intorno alla Fiom sembra pronto a suicidarsi pur di non prendere atto della realtà, esibendosi persino in una clamorosa sconfessione delle proprie tradizionali posizioni, cioè rifiutandosi di far votare i lavoratori sull’accettazione o no dell’accordo proposto dal Lingotto. D’altra parte il nuovo segretario della Fiom, Maurizio Landini, un estremista della stessa pasta del predecessore Gianni Rinaldini, era già stato sconfitto in un referendum in una fabbrica «di sinistra», come la Piaggio, e non poteva permettersi altre batoste.
L’esperienza sindacale di Pomigliano non è stata contrassegnata da salari (sono, anzi, bassi) o condizioni di lavoro esaltanti. Quello che lì è prevalso è una trascuratezza di fondo per la competitività, un sentimento nato grazie all’implicita intesa tra l’estremista Fiom e quel vertice torinese dei personaggi che oggi vorrebbero scendere nel «ring della politica»: una realtà di declino ma fatalisticamente attraente per chi voleva solo comunque sopravvivere grazie allo «scambio politico». Una realtà che non poteva durare, ma che induce oggi a un suicidio tipo lemming (animaletti che si uccidono perché non si adattano ai cambi ambientali) il gruppo dirigente fiommino e parte della sua base. Guglielmo Epifani con il solito stile è intervenuto alla fine, sostanzialmente dissociandosi dalla follia della Fiom, ma avvoltolando la sua posizione con i soliti ritornelli sulla Costituzione tradita. La Cgil epifanesca non è più un’organizzazione di lavoratori, ma una specie di pretura che non fa proposte politico-sindacali: emette sentenze.
Epifani si perde in scioperi generali che non spaventano più nessuno, fa passeggiare (in numero sempre più calante) i suoi pensionati «contro il governo», si mette a usare Nichi Vendola contro Pierluigi Bersani e passa il tempo a dividere i riformisti, gli estremisti, i centristi pur di mantenere un qualche suo peso politico. Intanto, però, a Milano, per esempio, la Cgil è riuscita a far affermare la Ugl (gli eredi del sindacato che affiancava il Msi) in luoghi di lavoro di tradizionale egemonia della sinistra, dalla Pirelli all’Atm.
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