Le surreali ironie delle tele di Baj

Tornano le Dame, tornano i Generali e fa un certo effetto vedere negli spazi di via Tadino 15 che ospitano la Fondazione Marconi qualcosa come cento fra tele, carte, multipli e libri d’artista che ripercorrono uno dei momenti clou dell’esistenza pittorica di Enrico Baj (Dame e Generali, sino al 15 marzo, dal martedì al sabato: 10,30-12,30; 15,30-19). Fa un certo effetto perché quella che allora, negli anni Sessanta, era anche e soprattutto una provocazione antimiltarista e antibellicista, quarant’anni dopo, quando ben altri sono i poteri reali e minacciosi che ci circondano, rivela invece tutti gli elementi surrealisti e istrionici, dadaisti e di puro divertissment che comunque l’animavano, una lettura feroce eppure svagata della stupidità al potere, la lezione espressionista di chi grazie all’ironia sgonfiava il timore che il potere stesso provocava e ne mostrava la goffaggine e l’intima miseria. La mostra, che è accompagnata anche da un bel catalogo edito da Skira ricco di contributi critici d’eccezione, raccoglie opere provenienti da importanti collezioni private e pubbliche, italiane e straniere, tra le quali il Modern Museet di Stoccoloma, lo Stedelijk Museum di Amsterdam e il Centre Pompidou di Parigi. Lo spunto che ne ha permesso la realizzazione sta in uno dei «libri d’artista» più significativi dello stesso Baj, quel Dames et Géneraux del 1964 in cui dieci acqueforti dell’artista accompagnavano altrettante poesie del surrealista Benjamin Péret. Un saggio introduttivo di André Breton e una pagine grafica di Marcel Duchamp in veste di faux-titre o avantitolo completavano il tutto, felice realizzazione di un connubio italo-francese a cui durante la sua esistenza Baj fu sempre sensibile e che lo spinse in un quarantennio a realizzare una cinquantina di opere dello stesso tenore.
Al centro di questi personaggi, Baj mette la lezione surrealista della mutabilità, ovvero la trasformazione di qualsiasi cosa attraverso la lettura ironica della realtà. All’inizio il Generale è una Montagna, una massa informe e una sagoma informe; all’inizio la Dama è un insieme di passamanerie, tende, drappi, nastri, qualcosa di brutalmente semplice, ma che rimanda a un universo concettuale di ornamento e di decoro, di raffinatezza e di aristocrazia.
Il passo successivo sta tutto nella fantasia sfrenata dell’artista, nei suoi gusti e nelle sue passioni, medaglie, uniformi, decorazioni, colori sgargianti. Così, lentamente, la montagna prende aspetto umano, connotati precisi, ma in questo processo antropomorfo non si umanizza quanto, al contrario diventa volgare e brutale, come il potere che rappresenta. Allo stesso modo gli orpelli delle Dame si moltiplicano, nella loro necessità di mascherare il vuoto che le pervade e nel moltiplicarsi si allungano i nomi che le rappresentano e i titoli che la fantasia di Baj presta loro: duchesse, contesse, marchese dai cognomi lunghi come una quaresima.
Nel 1980, tornando a riflettere su questi dipinti e questi collage, Baj si accorse come la primitiva incarnazione del potere militare avesse ceduto il posto a una riflessione sulla società dei consumi, un attacco in cui il mostro fine a sé stesso con tutte le sue decorazioni si faceva metafora di qualcos’altro, di una società, della violenza che da essa emanava. Era anche un modo, osservò Baj in quell’occasione «per riflettere su se stesso: L’humour è quello specchio sarcastico dove il creatore vede riflessa la propria opera e può giudicarla - così com’è - e giudicandola, si giudica». Milanese, nato nel 1924, Baj se n’è andato nel giugno di cinque anni fa.

È stato pittore, ceramista, scrittore, scenografo, scultore. La più bella definizione di lui e del suo lavoro la diede il poeta Raffaele Carrieri: «L’ultimo nipote di Ubu Roi». Era uno che, con grande serietà, non ha mai preso il mondo sul serio.

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