Svenduti e pentiti

Il sorriso tragico della storia. Potrebbe essere questo il titolo del romanzo delle privatizzazioni fatte negli anni Novanta. I demiurghi di quelle vendite, come giustamente ricorda Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera, furono Carlo Azeglio Ciampi e Mario Draghi, il primo presidente del Consiglio e poi ministro del Tesoro del governo Prodi, il secondo direttore generale del Tesoro dal ’90 al 2000. In quegli anni sembrò farsi realtà la leggenda del Britannia, il panfilo inglese sul quale la Finanza internazionale e i suoi epigoni nostrani avrebbero deciso di far bottino di aziende pubbliche italiane. Erano gli anni dei tecnici al potere e dei grandi partiti politici messi alla gogna.
Ciampi e Draghi, ma anche Dini e Prodi, senza strategia e senza prima costituire investitori istituzionali come i fondi pensione, trasferirono al mercato parte rilevante del 25 per cento dell’economia italiana messa nelle mani pubbliche. E dimenticarono che la nostra struttura produttiva era fatta per il 95 per cento da piccole e medie imprese, e per il resto dalla grande impresa pubblica (la Fiat era un’eccezione) presente in settori strategici e a tecnologia avanzata (energia, telecomunicazioni, informatica, spazio, avionica) per non parlare del credito, delle autostrade e della grande distribuzione. Quel rapido massiccio trasferimento di aziende dalle mani pubbliche a quelle dei privati non poteva che produrre i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Un vasto processo di colonizzazione contrastato prevalentemente dalle aziende pubbliche rimaste (Eni, Enel e Finmeccanica), una finanziarizzazione dell’economia italiana con un potere bancario concentrato in poche mani, autoreferenziale e in grado di sostenere a propria insindacabile scelta gli amici e gli amici degli amici quando volevano comprare aziende senza metterci del proprio.
Ha ragione questa volta Eugenio Scalfari quando dice, esagerando come sempre, che il nostro non è un mercato ma una vergogna. Avremmo, però, voluto leggere questi giudizi quando Ciampi e Draghi privatizzavano a tanto al chilo come fecero con la Telecom consegnata alla Fiat che aveva comprato appena lo 0,7 per cento concorrendo per questa quota al famoso nocciolo dei soci stabili del 7 per cento. O quando Ciampi dette all’Omnitel di De Benedetti la seconda licenza per la telefonia mobile venduta dopo poco tempo ai tedeschi della Mannesmann e poi agli inglesi di Vodafone. O quando, sempre Ciampi e Draghi, consentirono all’Enel di Testa e di Tatò di inventarsi una nuova società di telefonia mobile, la Wind, con France e Deutsche Telekom dopo che avevano venduto Telecom e Tim.
Ora siamo nella stagione del pentitismo di massa degli statalisti di ieri e dei mercatisti di oggi. Siamo felici perché siamo stati derisi e vilipesi quando da queste colonne in questi anni dicevamo ciò che oggi tutti dicono. I rimedi che i «pentiti» propongono oggi, però, sono errori uguali e contrari a quelli di ieri. Quando si pensa, ad esempio, di nazionalizzare la rete telefonica di Telecom si dimentica che quella rete Ciampi e Draghi l’hanno venduta incassando molti quattrini. Se la vogliono recuperare la devono ricomprare. E il prezzo sarebbe da capogiro. Agli errori di una politica di mercato, insomma, si risponde con nuovi strumenti di mercato.
L’ingresso, ad esempio, in Olimpia della Cassa Depositi e Prestiti e di un gruppo di banche italiane insieme ad un socio industriale europeo, come la spagnola Telefonica, può essere un’alternativa di mercato all’At&t e alla Movil. Guarda caso questa era la strategia di Tronchetti Provera bloccata dalle manovre di Guido Rossi e dalle resistenze delle grandi banche già azioniste di Olimpia e di Telecom. La politica, senza lasciarsi intimidire, può e deve fare la sua parte.

Non certo con le norme autoritarie ed espropriatrici come quelle suggerite da qualche ministro, ma con gli strumenti di mercato come sostiene lo stesso Clemente Mastella. Il tempo c’è per rimediare agli strafalcioni di ieri, ma purtroppo scorre veloce. Forse troppo veloce per i ritmi di un governo pieno di contraddizioni.
Geronimo

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