L'uso delle camere di sicurezza, previsto dal decreto svuota carceri, crea non pochi problemi nei rapporti tra governo e polizia. A far scoppiare la bomba è il vicedirettore della Pubblica sicurezza, il prefetto Francesco Cirillo, secondo il quale le "camere di sicurezza inadatte a detenzione". Il ministro della Giustizia Paola Severino risponde a stretto giro di posta ribadendo che la "norma è stata concordata con il Viminale, alla presenza dei vertici di polizia".
Le camere di sicurezza
Oggi in Italia ci sono 1057 camere di sicurezza. In base alle norme contenute nel decreto "svuota carceri" del 23 dicembre scorso dovrebbero ospitare, entro 48 ore dal fermo, persone arrestate per reati non gravi e in attesa di processo per direttissima. Ma secondo il vicedirettore della Pubblica Sicurezza, prefetto Francesco Cirillo, sono troppo poche e inadatte a ospitare i detenuti in condizioni di minima dignità. Oltre a questo le forze di polizia non sono organizzate né attrezzate per la custodia degli arrestati. La denuncia arriva in un'audizione informale, dalla commissione Giustizia del Senato, dove oggi parte l’iter per la conversione in legge del dl sull’emergenza carceraria. Il vice capo della Polizia ricorda numeri e dati, giudicati inequivocabili, che lo portano a concludere "il detenuto sta molto meglio in carcere".
La situazione è difficile
Delle 1057 camere di sicurezza 658 sono gestite dai carabinieri, 327 dalla Polizia, 72 dalla Guardia di Finanza. Non hanno il bagno, non consentono l’ora d’aria né la separazione tra uomini e donne e dunque non garantiscono "condizioni indispensabili per rispettare la dignità delle persone". I costi per un’eventuale adeguamento delle strutture sarebbero milto alti, sottolinea poi il prefetto Cirillo, che cita il caso di Torino, dove per 5 camere di sicurezza si sono spesi 450mila euro. "Nessuno ci ha spiegato come devono essere organizzate queste camere di sicurezza", lamenta ancora il prefetto. E polizia e carabinieri, i cui organici sono fermi al’89 (114mila carabinieri e 107mila poliziotti) "nascono per stare nelle strade". Tra l'altro, particolare non secondario, i necessari turni di sorveglianza sottrarrebbero forze consistenti al controllo del territorio.
Il ministro Severino: norme concordate
Il ministro Severino ribatte punto su punto alle accuse ricevute. "Le norme del decreto svuota carceri, che impongono alle forze dell’ordine di custodire in cella di sicurezza gli arrestati in flagranza in attesa della convalida sono state totalmente concordate" con il ministero dell’Interno e i vertici delle forze di polizia. "Attendo - ha precisato la Guardasigilli - di conoscere con esattezza da parte della commissione quali sono state queste considerazioni. Posso dire che quelle norme sono state pienamente condivise con il ministero dell’Interno. Si tratta di una normativa - ha ribadito - totalmente concordata con il ministero dell’Interno alla presenza dei vertici delle forze di polizia".
Mettiamo alla prova il decreto
"Se non si completa tutta l'attività di deflazione del processo civile - ha detto il ministro entrando in commissione Giustizia del Senato - non si può dire che si tratti di uno spot. Rispondendo alle critiche mosse oggi dagli avvocati al dl il Guardasigilli ha risposto: "Le cose vanno messe alla prova, un giudizio sul provvedimento si potrà dare solo quando il sistema è stato completato".
Il sindacato Sappe polemizza
Non tutti sono d'accordo con la denuncia fatta da Cirillo. Donato Capece, segretario generale del Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria ribatte in questo modo: "Non so su quali basi il vice capo della Polizia abbia detto che i detenuti stanno meglio nelle carceri che, come peraltro già previsto dalle leggi, presso le camere di sicurezza delle Forze di Polizia che operano gli arresti. Evidentemente non ha conoscenza diretta della grave emergenza penitenziaria, peraltro decretata da due anni dal governo.
Peraltro - aggiunge Capece - mi stupisce la sua presa di posizione visto che la norma inserita nel decreto legge 211 del 22 dicembre scorso non fa altro che ribadire una disposizione, da tempo impropriamente disattesa, del codice di procedura penale".
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