«TACCUINO INDIANO», GRANDE DOCUFILM

Si conclude questa sera Taccuino indiano (Raitre, ore 23,30), ultimo di cinque film-documentari firmati da Francesco Conversano e Nene Grignaffini. Chi ha avuto modo di vedere le puntate precedenti è molto probabile che non si perderà neanche questa finale, perché l'India è un Paese dai ritmi di espansione economica elevatissimi (ha un Pil che cresce del 6 per cento l'anno, secondo solo alla Cina) di cui però si sa ancora poco, e quel poco viaggia per lo più sulle carrozze dei luoghi comuni. Quanto mai utile, quindi, l'obiettivo del documentario: farci comprendere qualcosa di più di una società in cui non solo convivono culture e religioni differenti, ma che si muove al suo stesso interno secondo un passo che varia da regione a regione, esasperando le contraddizioni tipiche di un Paese che, come ha scritto la saggista Arundhati Roy: «vive simultaneamente in secoli differenti». Taccuino indiano, girato con i ritmi riflessivi che sembrano volersi adeguare a quelli della realtà filmata, fotografa alcuni aspetti significativi di questa evoluzione: ad esempio, nella puntata scorsa, ci ha fatto vivere attraverso il racconto dei protagonisti la recente grande avventura del cinema indiano, le cui star ottengono compensi hollywoodiani cui si aggiunge l'autentica venerazione dei fan, capaci di costruire addirittura dei templi a loro dedicati, che si riempiono di fiori e di doni. Il lato più curioso di questi documentari sta nell'aver saputo scegliere e collegare tra loro il succo delle contraddizioni indiane, tralasciando quelle risapute e sempre più universali (come la convivenza a contatto di gomito di grandi ricchezze e disumane povertà) per accostare invece facce, racconti, storie e voci capaci di farci capire quanto sia complessa e in costante divenire la realtà indiana. In casi come questi la scelta migliore è quella di far parlare la gente del posto senza aggiungere alcun commento all'eloquenza delle immagini, come hanno opportunamente fatto i curatori del programma: veniamo senz'altro a sapere di più di un popolo e del suo costume attraverso le parole di un'attrice indiana, del direttore-padrone di una lavanderia a cielo aperto, di un santone venerato dalle folle che da qualsiasi presunzione o pretesa analitica di un viaggiatore o di un osservatore esterno.

E se fra qualche anno, come è probabile, i per ora sottovalutati progressi della civiltà indiana arriveranno a sorprendere di colpo i pigri occhi di noi occidentali, forse ci ricorderemo di documentari di questo tipo, che in tempi non sospetti (non si dice forse così?) ci avevano introdotto con un certo anticipo nel «prossimamente» della realtà.

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