Tasso, Lope de Vega e Baudelaire fanno le fusa ai gatti

L'italiano li paragona alle Muse, lo spagnolo ne fa dei simboli dell'amore e il francese li divinizza

Tasso, Lope de Vega e Baudelaire fanno le fusa ai gatti

Torquato Tasso fu rinchiuso per sette anni nell'ospedale di Ferrara quasi pazzo furioso. Forse soffriva nella psiche, ma pazzo era considerato per l'essere un sommo poeta. Il maggior conforto nella prigionia gli venne dato dai gatti, numerosissimi nell'edificio. Il Poeta ripagò i gatti (le gatte, li chiama, ma credo che col femminile intenda l'animale in genere: come si usa in lingua napoletana) con una coppia di Sonetti di così alta e insieme delicata poesia che tutti gl'innamorati del Gatto dovrebbero conoscerli. Gli occhi della «bella gatta» sono chiamati santi («luci sante») e paragonati alla stella che mette in salvo il marinaio durante la tempesta; e le due gatte a due costellazioni, l'Orsa maggiore e la minore. Così i gatti sono per Tasso salvezza nella procella della vita e insieme divinità paragonabili alle Muse, delle quali invoca il soccorso poetico.

«Come ne l'ocean, s'oscura e 'nfesta/ Procella il rende torbido e sonante,/ A le stelle onde il polo è fiammeggiante/ Stanco nocchier di notte alza la testa,/ Così io mi volgo, o bella gatta, in questa/ Fortuna avversa a le tue luci sante,/ E mi sembra due stelle aver davante/ Che tramontana sian nella tempesta./ Veggio un'altra gattina, e veder parmi/ L'Orsa maggior con la minore: o gatte,/ Lucerne del mio studio, o gatte amate,/ Se Dio vi guardi dalle bastonate,/ Se 'l ciel voi pasca di carne e di latte,/ Fatemi luce a scriver questi carmi».

Il Poeta è ben conscio delle cattiverie che sui gatti si esercitano; noi dobbiamo immaginare lo Spedale come un luogo ove chiunque entrava e usciva e gli animali lo abitavano liberamente ma, cercando di procurarsi il cibo come potevano, erano vessati. Nell'altro Sonetto Tasso parla della moltiplicazione dei gatti nello Spedale: leggiamone la prima quartina col primo verso della seconda.

«Tanto le gatte son moltiplicate,/ Ch'a doppio son più che l'Orse in cielo;/ Gatte ci son ch'han tutto bianco il pelo,/ Gatte nere ci son, gatte pezzate;»

«Gatte con coda, gatte discodate;» (...)

***

Nel 1634 Lope de Vega crea un poemetto epico burlesco intitolato La Gatomaquia, ossia La Gattomachia, che significa La battaglia dei Gatti. Rifacimento della Batracomiomachia, questa deliziosa parodia dell'Iliade e dell'Eneide, non senza qualche eco della Gerusalemme liberata, si svolge fra gatti. Essi amoreggiano, danzano, si contendono l'amore delle belle, danno feste, fanno duelli; infine combattono una guerra in piena regola con un assedio, l'incendio della città vinta e la morte di gran parte dei contendenti: che muoiano tutti viene sventato dall'intervento di Giove dall'Olimpo affinché, colla scomparsa dalla terra dei gatti, i topi non prevalgano e si moltiplichino con terribili effetti. Il poemetto parrebbe il tipico caso di opera che, con intento satirico, mette in scena uomini travestiti da animali. E in parte è così, dal momento che le umane vanità sono poste in ridicolo: l'onore, la genealogia, il fasto. Ma questo vale solo in parte. (...)

L'amore, il corteggiamento, l'ira dei due Gatti protagonisti, Marramaquiz e Micifuf, sono come quelli di Achille e Agamennone; e anche il Turno di Virgilio entra quale modello per l'imitazione comica. Una delle scene più riuscite è, nella Selva III, quella d'una serenata amorosa, che Micifuf fa alla bella Zapachilda: la Gatta, alla finestra, giudica antiquata la dolce romanza e chiede «lascive» canzoni, ossia jácare picaresche. Così dialoga coll'innamorato finché non giunge Marramaquiz a sconcertare il tutto: e i componenti del concertino della serenata fuggono «per salvare gli strumenti». Chissà se Cesare Sterbini non pensasse anche a questo per la serenata colla quale incomincia Il barbiere di Siviglia di Rossini: Spagna per Spagna. I gatti di Lope danzano due tipiche danze barocche, la Gagliarda e la Ciaccona: la seconda di queste è nota in una sua forma particolare chiamata Follia di Spagna, immortalata soprattutto da Frescobaldi, da Corelli nell'ultima Sonata dell'Opera Quinta e di lì memorabilmente trascorsa ad Alessandro Scarlatti (ben altra base contrappuntistica e ben altro visionario virtuosismo rispetto al pur altissimo Romagnolo!), Salieri, che ne fa un manuale di scienza compositiva e di orchestrazione, Liszt e Rachmaninov.

Fonte del poemetto è anche Ovidio; del quale Marramaquiz è lettore (Selva V).

«Oh Muse! questo gatto aveva letto/ Ovidio e, per ventura,/ della favola d'Ercole voleva/ esempio trarre, perché temerario/ Ercole in sé ravvisa/ e i centauri nei gatti, che quel giorno/ moriron di sue mani»;

Mentre in un altro passo (Selva III) il poeta commenta che di tutti i travestimenti erotici adottati da Giove il solo a mancare è il gatto. Bei versi della Selva IV descrivono l'amore per i piccoli nutrito dalle scimmie, il più forte del regno animale. E la descrizione del gatto innamorato è del gatto vero, non dell'uomo in sembianza di micio (Selva IV).

«Che cosa può uguagliare/ la pazienza di un gatto innamorato,/ nella gronda di un tetto accovacciato/ fino a che spunti l'alba,/ cui, come i raggi, incoronò l'oriente/ di ghiacciuoli rigidi la fronte?/ Senza gabbano, manto né cappello/ Febo al tramonto lo avrà visto prima/ che smetta di implorare,/ con i tristi lamenti,/ della sua gatta le rigide orecchie,/ anche se il cielo piove/ argentee farfalle quando nevica».

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Baudelaire, lo abbiamo visto, è uno dei più grandi cantori e dei sentimenti degli animali e del valore simbolico di questi sentimenti. Anche lui è convinto, e ne convince chiunque lo legga, del fatto che i gatti abbiano natura divina e siano connessi ai misteri della Natura (...). Ecco il sessantaseiesimo Sonetto delle Fleurs du mal, sempre nella traduzione di Gesualdo Bufalino:

I Gatti

«Gli ardenti innamorati e i severi sapienti/ amano gli uni e gli altri, quando l'età declina,/ i forti e dolci gatti, vanto della cucina,/ che sono al par di loro freddolosi e indolenti./ Amici della scienza e della voluttà/ essi cercano l'ombre, i silenzi, i misteri;/ li avrebbe scelti l'Erebo per funebri corrieri,/ ma il loro orgoglio al giogo inchinarsi non sa.

/ Quando in nobili pose giaccion pensosi e immoti,/ paiono grandi sfingi che in deserti remoti/ smemora a poco a poco un sogno senza fine./ Dai loro lombi guizzano magici lampi a mille,/ e pagliuzze dorate, come una sabbia fine,/ vagamente gli screziano le mistiche pupille».

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