Terroristi in Comune? Solo la sinistra può

Provate a immaginare: il terrorista nero Valerio «Giusva» Fioravanti, condannato (con molti dubbi anche a sinistra) per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, viene assunto dal sindaco di Roma Alemanno nell’ufficio, ad esempio, per le «Relazioni con il pubblico». Scelta legittima giacché dall’aprile 2009, dopo dieci anni di semilibertà, Giusva è un uomo libero, essendo la sua pena considerata estinta per la giustizia. Ecco, immaginate che Alemanno faccia questa spregiudicata operazione: cosa direbbe la sinistra e non solo quella romana? Come reagirebbero i giornali democratici e progressisti, a cominciare dal manettaro Fatto Quotidiano per finire col giustizialista ad personam Repubblica? Io immagino un putiferio: alte grida allo scandalo, paginate di rievocazioni della strage, interviste ai parenti, petizioni, raccolte di firme e appelli dell’associazione dei familiari delle vittime; magari anche manifestazioni dei centri sociali.

Immagino che pensosi ma non per questo meno indignati commentatori porrebbero la questione non tanto in termini di legittimità, indiscutibile, quanto di sensibilità, soprattutto verso i parenti delle vittime, di opportunità e, insomma, di buon senso. A nulla servirebbe ricordare che i lunghi anni di semilibertà il Fioravanti li ha trascorsi lavorando per l’associazione radicale contro la pena di morte «Nessuno tocchi Caino», presieduta dall’ex terrorista di Potere Operaio e Prima Linea Sergio D’Elia, deputato dal 2006 al 2008 (governo Prodi) nella lista radical-socialista La Rosa nel pugno e in quegli anni segretario della presidenza della Camera, con le conseguenti inevitabili durissime polemiche. Non servirebbe a nulla invocare per Fioravanti una questione di «sensibilità» e di «opportunità». Nessuno a sinistra rivendicherebbe per Giusva il «diritto al reinserimento sociale», alla «emancipazione dagli errori del passato».

E invece sì a parti scambiate, se sindaco ed ex terrorista sono di sinistra, se è Giuliano Pisapia che respinge con sdegno ogni critica alla scelta di affidare un importante incarico pubblico, come quello di capo di gabinetto del vicesindaco Maria Grazia Guida a quel Maurizio Azzollini che il 14 maggio del 1977 sparava contro i poliziotti in via De Amicis, immortalato da una foto che ha fatto epoca. In quella occasione il vicebrigadiere Antonio Custra fu ucciso dalla pistola di un compagno di Azzollini, Mario Ferrandi. Pisapia e Guida ne fanno una questione di garantismo, di legittimità formale, di «diritto al reinserimento sociale», «alla emancipazione dagli errori» e, infine, un po’ letterariamente, «all’oblio». Ma a Palazzo Marino si gioca con le parole e con le formulette ideologico-propagandistiche. Nessuno, infatti, nega quei sacrosanti diritti e quelle legittime facoltà. Contestiamo, invece e con forza, l’opportunità politica, sociale e perfino culturale di quella scelta: la mancanza di sensibilità verso i parenti e la memoria dei poliziotti che attraversarono gli anni di piombo pagando con la vita, l’indifferenza al modello che si propone. Reinserimento sociale? Giusto.

E allora perché Azzollini, che nel ’77 sparava ai poliziotti in nome della classe operaia, non è andato a lavorare in fabbrica? O in una biblioteca o in una banca o alle poste? Evidentemente per la sinistra il reinserimento sociale passa solo attraverso importanti

incarichi pubblici, politici o amministrativi. E ne hanno diritto solo i compagni che hanno sbagliato. Anche perché spesso si conoscono personalmente, in quegli anni frequentavano gli stessi ambienti o ambienti contigui.

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