Washington - Per il Supermartedì, quello di domani, tutti gli indici parlano la stessa lingua: Mitt Romney crolla, Hillary Clinton resiste al contrattacco di Barack Obama, John McCain vola. Se però si passa alle indicazioni di voto per il vero Supermartedì, quello di novembre in cui si scelgono i presidenti degli Stati Uniti, troviamo una conferma e tre sorprese. La conferma è il povero Romney, considerato ancora più fallimentare che non oggi. Se fosse lui il candidato repubblicano alla presidenza i democratici stravincerebbero chiunque scelgano.
Ma i repubblicani andranno alle elezioni, ormai è certo, con John McCain, l'uomo che dovrebbe stravincere o quasi nel voto di domani. Ma come gli andrebbe nel duello che conta, quello fra partiti e non all'interno dei partiti? I sondaggi dell'Abc e della Washington Post dicono che dipenderà dall'avversario. Se sarà la Clinton, come parrebbe inevitabile dalle indicazioni di questo momento, il candidato repubblicano vincerebbe, di stretta misura ma sarebbe avanti: McCain prenderebbe il 49 per cento, Hillary il 46.
Ma se dalle primarie o dalla Convenzione nazionale del Partito democratico uscisse invece Barack Obama, allora McCain sarebbe sconfitto, di misura, ma sconfitto: 46 su cento voterebbero per lui, 49 per Barack. O più 3 o meno 3. Se il candidato repubblicano fosse Romney sarebbe a meno 12 nei confronti della Clinton (41 a 53) e addirittura sotto di 25 punti contro Obama (34 a 59).
La Clinton risulta, in base a dati mediamente vecchi di appena una settimana, in testa quasi ovunque, tranne l'Illinois roccaforte personale di Obama e un paio di Stati nel Sud e nel Sud-Ovest. È in testa a New York, è in testa in California, è in testa nel New Jersey e via discorrendo. Sono gli stessi sondaggi, però, ad avvertire che quasi ovunque Barack ha rimontato negli ultimi giorni. Il "ribaltone" dunque è possibile. Sarebbe anzi probabile se si votasse fra una settimana o due invece che domani. La "macchina Clinton" si è messa in moto prima dell'allegra brigata di volontari del senatore multicolore. In California e nel New Mexico, per esempio, gli elettori di lingua spagnola non sarebbero ostili a Obama ma si sono già impegnati con la Clinton, anzi con i Clinton, a causa dell'antica popolarità di Bill e dei suoi riguardi verso questa comunità quando era presidente. In California e a New York, per fare un altro esempio, gli elettori più tradizionali, meno colti, più anziani, più legati alle abitudini e ai piccoli favori tendono a rimanere fedeli ai vecchi protettori o sperati tali.
Barack ha ricevuto negli ultimi giorni l'appoggio entusiastico dei «famosi», a cominciare dalla famiglia Kennedy, che è molto numerosa, e ogni giorno c'è un erede o due della dinastia che si dichiara per Obama, ultima in ordine di tempo la vedova di Robert Kennedy, Ethel, che ha scoperto, anche lei, «grandissime affinità» fra il marito assassinato quarant'anni fa e l'uomo che dovrebbe «riaccendere la fiamma». Quanto a Ted Kennedy si è messo addirittura, a 76 anni suonati, a girare l'America da un capo all'altro come se il candidato fosse lui, come al tempo dei Camelot. Ma sul voto i Kennedy si sono spaccati: ci sono anche quelli che appoggiano la Clinton, come i tre figli di Ethel, Robert jr, Kerry e Kathleen. Se Obama manda in onda nelle tv spot con la figlia John F. Kennedy, Caroline, Hillary risponde con i tre eredi di Bob ed Eithel.
Ci sono infine i repubblicani che, un po' per sfiducia in McCain un po' per odio verso i Clinton, manifestano tentazioni di solito impensabili: Anne Coulter, la columnist ultraconservatrice famosa per la sua prosa che tende a fare terra bruciata, ha detto che voterà per Barack, un democratico comunque di sinistra.
Per i repubblicani tutto è molto più semplice: nelle loro primarie vige la regola del «chi vince prende tutto» e McCain potrebbe davvero fare il pieno, addirittura aggiudicandosi tre quarti della ventina di Stati in palio.
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