"Theater of Life" la retorica è il piatto forte

"Theater of Life" la retorica è il piatto forte

Per un momento ho pensato si trattasse di un film di Terrence Malick, uno dei registi più sopravvalutati e noiosi, a causa del titolo altisonante Theater of Life, da cui mi sarei aspettato in caso indicazioni su come affrontare l'esistenza, vivere felice, in equilibrio e magari reincarnarmi (il più tardi possibile) in un animale saggio quale la tartaruga.

E invece no. Si tratta di un docufilm di oltre un'ora e mezza, diretto da Peter Svateck e disponibile su Netflix dopo essere stato premiato in diversi festival. Interessante l'utilizzo del linguaggio, perché pur riferendosi a un episodio realmente accaduto, la storia è costruita con un sapiente meccanismo narrativo in cui le persone finiscono per diventare personaggi.

Basta il trailer per provare un inevitabile fastidio: un uomo che spezza il pane con fare cristologico. Il troppo successo, spesso, può dare alla testa. L'uomo è lui, Massimo Bottura, lo chef italiano più famoso nel mondo, inventore dell'Osteria La Francescana di Modena che per anni si è guadagnata un posto fisso nella classifica dei migliori ristoranti. Bottura è tutto ciò che un cinquantenne vorrebbe essere: bello, figo, barba hipster, capello scarmigliato, occhiale giusto, look fintamente trasandato e invece studiatissimo. Parla con la calma olimpica del giusto più che del ricco, citando la terra, l'origine contadina e spiegandoci che il cibo prima di tutto deve avere un valore etico, solo successivamente estetico. Certo, alquanto contraddittorio rispetto alla filosofia dell'impiattamento, ma se si pagano 200 euro a testa per una cena anche l'occhio vorrà la sua parte.

Più degli artisti, più degli architetti, i guru della contemporaneità sono gli chef e i food designer. Non si limitano a cucinare un buon piatto di spaghetti - mica semplice - ma devono ammantare la ricetta di strambe filosofie sulla sostenibilità, l'ambiente, aggiungendoci pure il prezzemolo dello spirituale - quando ben sappiamo che sullo spreco, a partire dalle date di scadenza impresse sugli alimenti che invece si potrebbero consumare ben oltre, si fonda uno dei più grandi business dell'Occidente: non c'è settore con maggior ricarico economico di quello dell'enogastronomia.

Non solo Bottura, ma tutti i «cuochi più famosi del mondo» sono però buoni e giusti, a parte il francese Alain Ducasse, la cui antipatia traspira da ogni poro delle pelle. L'idea del vate emiliano è comunque vincente: cucinare alla mensa dei poveri con gli avanzi di Expo 2015. Mette su dunque il Teatro della Vita nel quartiere Greco a Milano e da lì l'esperimento continua in altri luoghi del mondo. Dei poveracci, tutti con un passato catastrofico di droga, prostituzione, le solite immancabili storie di migranti di cui davvero non ne possiamo più, mangiano, e bene, dando ragione alle nonne secondo le quali il pane di ieri è ancora più buono.

Bello e onorevole far felice qualcuno, strategico che Bottura e amici si guadagnino l'ennesima medaglietta di salvatori del mondo. Va a finire che prima o poi ce li ritroveremo in politica, chiamati dai governi a risolvere il disequilibrio tra i popoli.

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