Tofoli, quarant’anni sempre sotto rete

Classe 1966, come Pagliuca e Costacurta, ha scommesso di riportare il titolo a Roma

Francesco Rizzo

Quando ti senti vecchio? Quando incontri uno che credi di conoscere e poi scopri che non è lui, ma suo figlio. La storia è diversa solo per gente come Paolo Tofoli, nuovo regista della nuova squadra di volley di Roma, 40 anni oggi. Gli hanno domandato chi siano i suoi eredi e lui ha citato Dragan Travica, italocroato che giocherà in A2 a Milano e di cui Tofoli potrebbe essere padre. Il padre, invece, è Ljubo Travica, allenatore-globetrotter dei nostri palazzetti. Nell’85 Travica senior si esibiva, da schiacciatore, nell’allora Ciesse Padova: con lui, un ragazzo appena pescato in B, a Fano. Paolo Tofoli.
«Fa uno strano effetto scoprirsi i capelli grigi - ride Paolo - ma io sono uno che batte il ferro finché è caldo. Ho stimoli, mi diverto, vado avanti un anno alla volta». L’accordo con Roma, in realtà, è biennale: la squadra, ripartita acquistando i diritti di Crema, è un puzzle da comporre, ci sono gli azzurri Mastrangelo e Savani e il cubano Osvaldo Hernandez, ma lo sport non è matematica e il sogno di ripetere lo scudetto 2000, quei bagni di folla, abita ancora su una nuvola. «Ho scommesso di riportare la città al titolo, io nel 2000 c’ero, resta tanto da fare ma è una sfida e fa parte del divertimento. Il volley è un gioco, fatto di situazioni sempre diverse, di trasferte, di vita di spogliatoio. Un mondo distante dalla realtà e dal quale è difficile staccarsi». Un mondo che Tofoli ha cominciato a frequentare all’oratorio, «perché ai miei tempi non c’erano il minivolley e i centri sportivi dove oggi porto mio figlio maggiore e qualcuno si occupa di tutto». Un mondo nel quale l’ex-regista di Treviso e Trento, allenato da maestri diversi fra loro ma decisivi (per tanti) come Prandi, Velasco, Montali, ha trovato successi e benessere, amici e qualche nemico («è la mia festa, devo essere buono»), tre scudetti, due titoli mondiali, ’90 e ’94, la miccia del boom del volley in Italia. Poi arrivò l’argento amarissimo di Atlanta ma Paolo, tuttora, considererebbe una nazionale iridata a Giappone 2006 paradossalmente più «fertile», per la pallavolo, di Milano e Roma radicate in A1 o di Torino o Napoli ritrovate.
Festeggiare gli «anta» in campo significa però appartenere a un club particolare, lo stesso di Pagliuca e Costacurta nel calcio (entrambi classe ’66, come lui), di Dan Gay, che pochi mesi fa sgomitava sottocanestro per Cantù, a 44 primavere o di Roger Clemens, annata ’62, tornato a lanciare nel baseball Usa. «Al lunedì c’è un po’ di mal di schiena, ma la cura per il proprio corpo e una corretta alimentazione fanno la differenza. Non ho subito gravi infortuni, so curarmi. E poi il volley è cambiato, non solo nei compensi: il rally point system, abolendo il cambio-palla, ha reso il gioco più comprensibile e le partite... più brevi. Infine il mio è un ruolo meno logorante di altri. Bisogna essere psicologi, intuire come stanno i compagni. L’esperienza conta quanto le mani sane. Devi saper ragionare».
L’alzatore del volley come il vino che migliorando invecchia, dunque, ma ci si può stancare ad essere sempre nella botte, sotto pressione. O no? «La norma è che, se le cose vanno male, dopo l’allenatore salto io, il palleggiatore. Ma a 40 anni - continua Tofoli, reduce da un’esperienza non fortunata a Perugia - sai quanto vali, sei più tranquillo. Le domande arrivano se pensi al futuro. Cosa farò, dopo? Io ho in progetto di aprire un centro fitness a Fano e di restare nel volley, passare la mia esperienza ai ragazzi ma il trasloco alla vita vera sarà difficile. Forse uno rimanda il ritiro per questa paura. E c’è chi cade in depressione».
Rimandare il ritiro, quindi non immaginarlo nemmeno. «Non fisso date. Deciderò e basta.

E se sto bene, al contrario di qualche collega, non ho problemi a scendere di categoria e continuare. Finché resto in piedi...». Ci sarà sempre, oltre la rete, qualcuno che sembra un vecchio compagno di squadra. Invece è suo figlio.

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