Il settantacinquesimo volume del Dizionario biografico degli italiani, edito dall’Enciclopedia Treccani, include la voce Montanelli. Che è stata affidata a Sandro Gerbi e Raffaele Liucci, attenti ma un po’ maligni biografi del grande Indro. Molto lunga e particolareggiata, la voce potrebbe essere in gran parte sottoscritta anche da chi, come me, ha avuto per Montanelli affetto e ammirazione, potrebbe se alcuni brevi passaggi - ma sono passaggi importanti - non esprimessero e sottintendessero un’acredine che, tramite Montanelli che ormai non c’è più, colpisce il suo vero oggetto, ossia Silvio Berlusconi.
Per rendere plausibile la loro tesi, i due autori sono costretti a banalizzare se non ad avvilire l’ideologia montanelliana. Un liberalconservatore con pulsioni ribelli, che si tenne sempre lontano dall’universo reazionario, che fu tenacemente laico, che salvaguardò la propria indipendenza al punto di rifiutare la nomina a senatore a vita, diventa un qualunquista capace di assecondare gli istinti d’una destra reazionaria e avida. Eppure - gli stessi Gerbi e Liucci lo riconoscono - quando certi lettori si illudevano d’associarlo ai loro furori e alle loro nostalgie sanfediste Indro era pronto a bacchettarli. «Approvo di tutto cuore - scrisse a uno di loro - la sua decisione di non leggermi più. Lei non ha soltanto sbagliato giornale. Lei ha sbagliato secolo».
Ma questo non basta, a quanto pare, per riscattarlo. Tutta colpa d’un fatto nuovo che intervenne, nel percorso montanelliano, quando Silvio Berlusconi ebbe la proprietà del Giornale (che aveva gravissime difficoltà e chiudeva i bilanci in profondo rosso). Soltanto con il Giornale - lo attestano Gerbi e Liucci - Montanelli che fino a quel momento era stato una stella solitaria nel mondo della stampa, diventò un giornalista politico a tutto tondo. Lo fece senza rinunciare al suo approccio umorale, irridente, sarcastico. Ma «nei suoi editoriali indagava uomini e correnti, suggeriva alleanze, delineava strategie... Nell’intimo disprezzava il Palazzo, eppure s’era assunto il compito di separare il grano dal loglio».
Nulla o quasi da eccepire, fin qui. Di sicuro Montanelli, direttore del Giornale appartenente a Berlusconi, non ubbidiva agli ordini di Berlusconi. Lo si vide in molte circostanze, in una soprattutto. Berlusconi era vicinissimo, umanamente e ideologicamente, a Bettino Craxi, ma non mosse un dito - o se lo mosse non ottenne nulla - quando Montanelli ruppe con Enzo Bettiza per non dare al Giornale una marcata impronta filosocialista. La sezione culturale del Giornale fu, e il Dizionario biografico ne dà atto, tra le più vive e interessanti. Era dalla parte degli intellettuali «sospinti verso posizioni di centro, se non di destra, da una motivata allergia al sinistrese e alle sue pose concettualmente sommarie e formalmente analfabetiche». Un irridente pretoriano, Montanelli, che contrastava, dall’alto della statura giornalistica, la deriva pseudoprogressista di tanti letteratini e di tanti comitati di redazione. Una figura nobile, anche per Gerbi e Liucci.
Ma poi si arriva al giorno in cui Berlusconi entra in politica, a dispetto di Montanelli, e rompe con Montanelli. Allora cambia tutto. Il liberaldemocratico si trasforma in aizzatore di istinti cavernicoli. Cito: «Indro Montanelli, ergendosi a portavoce del senso comune dell’italiano medio, aveva offerto autorevolezza agli impulsi qualunquistici e anarcoidi presenti nel nostro corpo sociale. Solo quando Berlusconi s’incaricò di dare per la prima volta, nel 1994, una rappresentanza politica a questo magma informe, il Montanelli si rese conto di avere involontariamente recitato la parte dell’“apprendista stregone”... Molti non capirono. Dopo tutto, il Berlusconi “politico” stava per appropriarsi del lessico utilizzato per vent’anni dal Giornale. Il richiamo ai perduti “valori morali”, la retorica dello scontro di civiltà tra “anticomunisti” e “comunisti”».
Una diagnosi, questa di Gerbi e Liucci, che è difficile dire se sia più infamante per Montanelli o per Berlusconi. Del primo fa un pifferaio cinico che trascina con sé rozze turbe di trogloditi per poi consegnarle a un Cavaliere ancor più cinico di lui. Del secondo fa un plagiario che adatta l’insegnamento montanelliano alle esigenze della politichetta spicciola.
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