Il tracollo di Cuper dai colpi sul cuore ai colpi della camorra

Da “hombre vertical” a “hombre horizontal”. Più in basso di così non poteva cadere l’ex allenatore dell’Inter, il 56enne Héctor Raùl Cùper, finito nell’ingranaggio della camorra e delle partite taroccate. Lui che batteva la mano sul petto dei giocatori all’ingresso in campo, lui che ai tempi di Calciopoli si era scagliato contro l’avidità del sistema sportivo, lui che nello spogliatoio parlava di cuore e di etica, lui che con il calcio ha fatto soldi a palate, lui, l’insospettabile, non ci ha pensato un attimo a vendersi per 200mila euro. Dall’intercettazione di una telefonata e dalla registrazione di un colloquio, viene fuori che il signore in questione intratteneva rapporti con il clan D'Alessandro e che, in cambio di soldi, aveva fornito informazioni sul risultato di 4 partite, 2 del campionato spagnolo e 2 di quello argentino. Il tutto debitamente trascritto in un foglietto neanche tanto anonimo.
Un uomo, due facce. Chissà cosa ha pensato Massimo Moratti quando ha letto sulla Gazzetta dello Sport che il tecnico argentino, arrivato a un passo dallo scudetto nel maggio 2002, non era quel personaggio serio, credibile e autorevole con il quale riteneva di avere a che fare e con cui aveva condiviso una delle pagine più tristi della storia nerazzurra. Nient’altro che un omuncolo. Logico che il presidente della Beneamata si sia sentito tradito. Il giorno che l’aveva cacciato, dopo una sconfitta nel derby e un pareggio a Brescia, si era persino scusato con lui («Io la vorrei tenere, ma i risultati sono quelli che sono e i giocatori...») e all’amministratore di fiducia ordinò di pagargli per intero le due annate pattuite all’inizio dell’anno. O Cùper è cambiato di brutto in questi anni, in cui non ha più combinato nulla di buono ad eccezione di una salvezza con il Maiorca, oppure non ha mai mostrato la sua vera faccia. E questo sarebbe l’aspetto peggiore.
Una brutta storia. L‘inizio, quanto mai casuale, è legato all’intercettazione di una telefonata in cui due camorristi si accusano a vicenda di aver barato sulle “dritte” ricevute da Cùper e rivelatesi esatte solo in tre casi su quattro. Apriti cielo. Il clan D’Alessandro, che su quella martingala aveva investito fior di soldi, si sente defraudato. Sotto accusa finiscono i due affiliati che, in cambio di quelle preziose informazioni, avevano consegnato al tecnico 200mila euro dopo averli nascosti durante il tragitto aereo nelle mutande e nelle calze. Il capitolo successivo si svolge in Spagna dove l’allenatore, che adesso ha trovato in Turchia una panchina dopo l’ennesimo fallimento, viene raggiunto da uno dei camorristi che lo affronta a muso duro («Ci hai fregato, ci hai dato una sola, abbiamo perso un sacco di soldi con le scommesse, imbecille che non sei altro...») e registra tutta la conversazione.
A questo punto gli investigatori della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, dopo aver fermato i due malviventi ed essere venuti in possesso della registrazione, si recano in forze a Santander per interrogare Cùper. Il tecnico prima dice di non saperne nulla, poi messo alle strette dalle registrazioni ammette di aver ricevuto una somma in denaro e si trincera dietro una misera giustificazione: «Erano soldi di mia suocera, li avevano portati dei napoletani nella biancheria, servivano per ristrutturare una casa». Figuratevi la faccia dell’ex “hombre vertical” alla domanda più banale e ovvia degli inquirenti: «Non era più semplice un bonifico?». Alla fine l’allenatore crolla, nega il suo coinvolgimento nello scandalo del campionato italiano («In quella vicenda non c‘entro»), ma non aggiunge altro.


La vicenda porta a tre considerazioni: 1) se la malavita organizzata, vogliosa di espandersi in più mercati per fare e pulire soldi con scommesse su risultati certi, s’è rivolta a Cùper, a colpo sicuro, vuol dire che era certa di poterlo coinvolgere nell'affare, che insomma si trattava di un contatto consolidato; 2) i 200mila euro rappresentavano probabilmente solo un anticipo perché con quella somma non é possibile sistemare quattro partite di campionati così importanti, a cose fatte ne sarebbero arrivati almeno altrettanti 3) il taroccamento delle partite non è affare solo italiano come vogliono farci intendere i soloni di Fifa e Uefa perché coinvolge molti paesi dell’Est Europa, Germania, Finlandia e ora Spagna. Ma noi forse siamo gli unici che mettiamo in pubblico i panni sporchi e cerchiamo di fare pulizia. Come nel doping. A dimostrazione che di “hombre horizontal” non c’é solo Cùper.

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