Una Traviata scaligera che affascina ancora

Bravissimo il nuovo direttore Carlo Montanaro. Interpretazione di classe di Irina Lungu e José Bros

da Milano

Misurare la Traviata è impossibile. I parametri soliti (è «avanti» o «indietro»? è «datata» o «di rottura»?) non funzionano per l'opera di Verdi e nemmeno per le sue interpretazioni. È così autentica e ci tocca talmente che ogni volta fa storia a sé. Quella che ripropone la Scala per coprire il clamoroso infortunio dell'Andrea Chénier annunciato e scomparso è per esempio certamente legata a un pugno di anni fa, quando Muti la riportò nel repertorio della Scala contro vedovanze ed intemperanze degli ultrà legati a memorie passate. Liliana Cavani, con le scene di Ferretti ed i costumi della Pescucci, l'aveva segnata di nostalgia raffinata verso un Ottocento operistico perduto ma riconoscibile nel respiro e nei dettagli; ed è una scelta che incontra ancora con fascino l'immaginario della gente. Fa parte di quegli allestimenti che in un grande teatro vanno conservati a lungo, come riferimento alla propria identità, da tenere per qualche tempo accanto ai nuovi.
Il nuovo direttore, Carlo Montanaro, non imberbe ma giovane, ci entra in punta di piedi. A mio giudizio è straordinariamente bravo, perché si muove nell'opera come a casa sua, ed è dei pochi che potrà dare anche in futuro sicurezza e tranquillità ai cantanti, di cui asseconda il respiro e indica il fraseggio con gesto morbido e preciso. Non è di quelli che per far scrivere che hanno una personalità eccedono in un aspetto, correndo nei tempi o buttando i colori all'estremo; e le grandi frasi di quest'opera, fin dal preludio, arrivano da lontano, come un racconto toccante.
Infortunata Mariella Devia, abbiamo riascoltato come protagonista molto festeggiata Irina Lungu, di cui vi ho detto già molte cose un anno fa, e che è ancora migliorata, con grande classe e sempre molto intensa e vera. Ora ha bisogno solo di avere una Traviata costruita per lei, e di esserne felice.
C'era con lei un Alfredo educato ed armonioso, José Bros, credibilissimo; con una buona compagnia.

Renato Bruson si è imposto come Papà Germont: suocero mancato di innumerevoli Violette, non è sempre il massimo della duttilità alla linea del direttore; ma la sua autorità, la sua pienezza, l'imponenza di sempre si sono arricchite d'una nuova sottile confidenza, e dice il testo come se lo inventasse sul momento, per necessità. Insomma, la grandezza è grandezza, e tutto il pubblico l'ha capito.

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