Troppe cose fuori luogo nel "Giardino" di Cechov

L'opera del grande drammaturgo russo stravolta da Leonardo Lidi: «pop», colorata ma senz'anima...

Troppe cose fuori luogo nel "Giardino" di Cechov
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C'era una volta Il giardino dei ciliegi. C'era una volta, cioè, lo struggente canto del tramonto di un'era, intriso di nostalgia e di un'elegiaca speranza nel futuro. C'era; perché chi ha assistito al Giardino dei ciliegi andato in scena al Festival di Spoleto e diretto da Leonardo Lidi, ha assistito a tutt'altro. Lidi infatti trasforma questa delicata polifonia dell'anima in un concentrato «pop», ipercolorato, purtroppo fuori tema. Gli aristocratici protagonisti diventano una galleria di freaks in costumi fosforescenti, che invece che nel suddetto giardino prendono il sole in bikini su una spiaggia anni '60. Il malinteso secondo cui per sottolineare la modernità di un'opera si deve modernizzarne il contesto, piuttosto che evidenziarne i contenuti, provoca un cortocircuito: annullati i riferimenti storici (la fine dell'epoca zarista), invece indispensabili a comprendere la trama emotiva, battute come quelle sulla fine della servitù della gleba diventano incomprensibili.

Concentrato in un'ora e tre quarti di spettacolo, il testo di Checov non respira, non trova le necessarie risonanze, e i suoi più alti momenti poetici, come la speranza nel futuro di Anja e Petja, o lo struggente addio finale, cadono inerti come sassi. La psicologia dei personaggi ne risulta trascurata o travisata: l'iperemotiva Dunjascia diventa, al contrario, una indifferente fatalista; l'infantile Gaev un bizzarro senza motivi; la vitale Anja perde ogni slancio idealistico. L'appiattimento generale tocca il suo peggio nello scambio di sesso (omaggio all'ideologia gender?) fra il personaggio maschile di Gaev, chissà perché interpretato da una donna, e quello femminile di Charlotta, senza motivo alcuno (non basta a spiegarlo la sua «indeterminatezza» esistenziale) trasformato in un grottesco travestito, che canta Madame di Renato Zero.

Peccato che Lidi sprechi attori (come Francesca Mazza, Ilaria Falini, Christian La Rosa) dotati di una forte intesa, in scene come quella della festa, dove il testo, martellato come un rap in una serata-disco, mortifica ogni sfumatura poetica, ogni prezioso mezzotono. Eppure, nonostante tutte queste incongruenze, alla fine, il pubblico applaude entusiasta. Evidentemente inconsapevole di non stare applaudendo Il giardino di Checov. Ma quello di Leonardo Lidi.

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