Troppi, sporchi e interattivi Dietro i libri? Niente...

Si pubblica di tutto e con poca cura. E in più il ministro Profumo fa il tifo per l'iPad a scuola. Ma scrivere significa assumersi responsabilità di fronte al mondo

Troppi, sporchi e interattivi  Dietro i libri? Niente...

Mi capita sempre più spesso, in questi anni, di leggere libri che in realtà non sono libri. Non importa che siano saggi o romanzi o racconti, non importa il genere letterario. È una confusione che avverto e che mi si comunica attraverso tanti particolari.
Non molto tempo fa ho ordinato una nuova edizione dei racconti di un grande scrittore. Aprendo il volume, ho cercato l’indice generale e non l’ho trovato, né all’inizio né alla fine. Il libraio si è offerto di cambiarlo con un’altra copia, e qui abbiamo scoperto che nessuna copia aveva l’indice. L’editore (un grosso editore) aveva dimenticato questo piccolo particolare. Una svista, forse. Ma anche una svista ha un senso, racconta qualcosa. Del resto, non ho nessuna intenzione di mettere gli editori sul banco degli imputati. Tutti conosciamo le difficoltà che l’editoria sta attraversando e le capriole che deve fare per mantenersi. L’epoca in cui un editore aveva a sua disposizione eserciti di curatori, traduttori, correttori di bozze, tipografi ecc. è finita da un pezzo.
Il problema è che si sta perdendo il senso del libro, vale a dire la capacità di rispondere alla domanda «che cos’è un libro?». Una domanda alla quale va data una risposta allegra e speranzosa. Prima di offrire la mia ipotesi di risposta, vorrei fare alcune osservazioni. Lascio perdere la vecchia polemica di chi dice che oggi si pubblica tutto (che è come dire che non si pubblica niente): questo è un aspetto del problema, che riguarda l’editoria. Ma il problema è generale, o meglio: è di cultura generale. Lo svuotamento del concetto di «libro» si nota dagli eccessi che lo circondano e dalla vuotezza di certe polemiche al suo riguardo.
Per esempio, c’è chi considera il libro come un «supporto» del testo, e così parla di supporto cartaceo, supporto informatico e così via. Il ministro Profumo fa benissimo a dire (ieri, sulla Repubblica) che i ragazzini lavoreranno sull’iPad e non più sui libri. Questo eviterà molti disturbi della spina dorsale dovuti al peso delle cartelle, i caratteri potranno essere ingranditi a piacere. Tuttavia un libro non è affatto un supporto. Lo dimostra il fatto che si è sviluppata negli anni una letteratura online i cui caratteri sono diversi da quelli della letteratura cartacea, e che il successo online non implica quello cartaceo e viceversa (a meno di grossi interventi pubblicitari). Quello che l’iPad non potrà mai sostituire è l’interezza del libro, il suo corpo. Vedersi scorrere davanti I promessi sposi pagina per pagina non è come tenere il libro in mano.
Contro la retorica del supporto si erge, poi, quella del bibliofilo, che ama e talvolta venera il libro-oggetto e solitamente depreca l’editoria contemporanea e rimpiange i tempi in cui tutto, in un libro, raccontava la cura di chi l’aveva fatto: composizione e giustezze, dimensione e bellezza dei caratteri, accuratezza delle note e degli indici, rilegatura, qualità della carta e così via. Ma tutte queste qualità sono il segno di qualcosa, non la cosa stessa. Il corpo rinvia all’anima, ma può anche esserne sprovvisto. La posizione del bibliofilo è insufficiente come quella alla quale si oppone. La posta in gioco non è l’insostituibilità o meno della carta (è di questo, normalmente, che si parla) ma il libro come forma nel senso aristotelico, che come ognuno sa coincide con la sostanza.
Bisogna capire dove sta la necessità del libro. È la sua necessità a rivelarcene il senso. Anche qui, però, ci scontriamo con una falsa opposizione. Da una parte, infatti, c’è chi misura la necessità di un libro dal suo successo commerciale (mentre probabilmente è stato proprio l’anonimato del mercato a renderne più difficile la comprensione); dall’altra c’è la crisi dell’università, che ha grandi difficoltà, oggi, a produrre uomini in grado di scrivere veri e propri libri. I libri degli accademici sono, normalmente, miscellanee di scritti (più o meno) scientifici quando non un frettoloso riordino di ricerche effettuate dagli studenti e risistemate con il nome del docente.
Non finirò mai di ammirare la testardaggine con la quale i francesi (la cui cultura non gode di uno stato di salute generale molto migliore del nostro) difendono il libro come bene, come risorsa. La Francia produce libri che il mondo accademico italiano non si può permettere, e questo non per la superiorità dei loro studiosi, ma per la difesa della ricerca, della libertà e del coraggio intellettuale come beni in sé, come risorse in sé. E per la buona abitudine, istituzionalmente sostenuta, di far sì che le parole della cultura «alta» abbiano un significato per tutti, ossia pongano un problema interessante per la nazione intera e non soltanto per gli altri studiosi.
Mi rendo conto di avere usato diverse parole il sui senso ha subito in questi anni un pericoloso slittamento: quando diciamo «coraggio», per esempio, non dobbiamo intendere «velleità» (che produce al massimo qualche instant-book). Dobbiamo intendere la responsabilità che un uomo si prende di dire - attraverso un romanzo, un saggio, una rivista ecc. - qualcosa che ritiene importante per la comunità, bucando la cortina di consuetudine, luoghi comuni, gerarchie prestabilite, rendite di posizione che esiste sempre, in tutte le culture. Questo atto di libertà sta a fondamento del libro come forma e non solo come supporto o oggetto fisico.

Il nesso tra pertinenza e universalità, promosso dal nostro normale senso di responsabilità e dal coraggio che ne consegue, devono trovare sostegno nell’istituzione. Difendere il libro come risorsa significa innanzitutto difendere questa possibilità.

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