Trovato l’italiano disperso: è morto nel sonno

Anche l’ultima speranza si è spenta. Ieri i soccorritori lo hanno trovato cadavere: Alberto Bonanni, l’italiano dipendente dell’ambasciata italiana a Islamabad sparito dal giorno del terremoto che ha sconvolto il Pakistan e il Kashmir, era sotto le macerie. Lo hanno trovato nel letto, dormiva quando il terremoto lo ha ucciso.
Quando alcuni giorni fa le prime agenzie hanno battuto la notizia, un brivido mi ha percorso la schiena: «Speriamo che non sia Alberto», mi sono detto. Speranza delusa già l’indomani, quando si è saputo che all’appello mancava proprio lui e che le Margala Towers, dove viveva e dove, un anno fa, mi aveva ospitato, erano crollate. Alberto l’avevo conosciuto con un gioco di sponda mediatico, ed era nata subito una bella amicizia, fatta di contatti, di passioni per la musica e la poesia, per le culture minori. Ero in Pakistan per il Giornale, per «La7» e per «Radio Popolare» a seguire la spedizione alpinistica italiana al K2. Passammo cinque giorni insieme. I ricevimenti all’ambasciata non ci interessavano. Non per snobismo: volevo conoscere la gente, i luoghi. E Alberto mi seguì: «Di tartine ne mangi quante ne vuoi in Italia», mi disse con un’inflessione leggermente veneta, che però tradiva, insieme, semplicità e cultura. Venne a prendermi al Marriot Hotel. La nostra stretta di mano fu una birra nel pub sottostante, l’unico che la vendeva in tutta Islamabad.
Poi uscimmo e andammo a casa sua, un appartamento delle Margala Towers. Non ricordo a che piano. Prendemmo l’ascensore. In casa mi raccontò della sua passione per il festival di Lahore, dove fra gruppi musicali anche occidentali e spettacoli di marionette, passava ogni anno momenti bellissimi. «Qui in Pakistan è incredibile che ci sia un evento culturale di questo livello, in mezzo a tanti problemi di sopravvivenza».
Una sera andammo in una piazza che non saprei mai più ritrovare. Conosceva tutti. Mangiammo carne speziata in quel tipico caos delle metropoli islamiche, fatto di schiamazzi, fumi e odori di carne grigliata, volti scavati e invecchiati da una vita più dura che altrove. Ma sorridenti e gioviali. Alberto mi raccontò dei suoi viaggi nel Chitral, al confine del mondo, in una delle ultime comunità pagane della terra che pure si trova nel Pakistan musulmano. Dove però il calcio, quello sì, è arrivato.

Ci andava tutti gli anni con un gruppo di amici inglesi e il ricevimento rituale consisteva in una partita di calcio, con l’intero paese che partiva alla volta del campo a due ore di cammino dal villaggio. Mi lasciò anche un video che dovetti riconsegnargli. «È l’unica copia che ho», spiegò. C’era, in quel video, il suo sorriso in mezzo a quello di un villaggio intero. Anche quello è andato distrutto sotto le macerie.

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