La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, in realtà, non è iniziata. Per il semplice fatto che non è mai finita. La decisione del presidente americano Donald Trump di imporre dazi a lavatrici e pannelli solari provenienti dalla Cina è solo l'ultima battaglia, e nemmeno la più cruenta, di un conflitto decennale. Per questo è curioso che solo adesso si sentano i leader europei gridare allarmati denunciando il rischio di una «guerra commerciale». Incomprensibile.
Poco più di un anno fa, infatti, l'Unione europea, praticamente all'unanimità, ha rigettato la richiesta della Cina di essere riconosciuta come «Paese a economia di mercato» e, adeguandosi alla posizione della Casa Bianca (occupata da Obama, non da Trump), l'ha dichiarata «Paese a economia non di mercato». Questo consente ai Paesi aderenti al Wto (l'Organizzazione mondiale per commercio) di imporre dazi ai prodotti provenienti dal Paese orientale, così come da ogni altro prodotto proveniente da economie «non di mercato». Legalmente, perciò, la ragione è dalla parte di Trump. Gli allarmi per il «protezionismo» e l'«isolazionismo» dell'America sono, insomma, chiacchiere. Anche perché l'«America prima di Trump» ha imposto qualcosa come 112 dazi contro le merci cinesi mentre la Cina ha in vigore appena 19 dazi contro le merci americane. Trump, in pratica, sta continuando ciò che altri hanno iniziato prima di lui, Obama compreso.
L'Unione europea ha, invece, un comportamento schizofrenico (oltre che masochista). Da una parte ha dichiarato la Cina Paese a «economia non di mercato», dall'altra critica Trump se minaccia di mettere dazi, dall'altra ancora, continua a mettere la Cina sul banco degli imputati per pratiche commerciali scorrette. Attualmente, secondo i dati elaborati dal sito di data journalism Truenumbers.it, la Ue ha in piedi 20 procedimenti contro Pechino su un totale di 30. Sarà per questo che Pechino è ricorsa, molto istericamente, alla Wto denunciando la decisione della Ue di un anno fa.
Tra le pratiche scorrette che si imputano a Pechino c'è anche quella dei dazi non solo all'import ma, soprattutto, all'export. Funziona così: se un'azienda cinese intende vendere all'estero i propri prodotti lo può fare solo se non mette a rischio il raggiungimento dei target dei piani quinquennali stabiliti dal governo centrale. In caso contrario il governo impone dazi su quelle merci per renderle poco competitive all'estero e convincere i produttori a venderle all'interno. Questo vale soprattutto per i beni di prima necessità, mentre per gli altri prodotti l'export è molto incentivato: il 90% di tutti i cellulari venduti nel mondo sono costruiti o assemblati in Cina, così come l'80% dei computer e dei condizionatori. Bastano questi numeri per dare una pallida idea della potenza industriale e commerciale di Pechino: una potenza tale da mandare in rosso per 175 miliardi di euro la bilancia commerciale europea nel 2016 e per quasi 15 quella italiana nel 2017.
Ma oltre a pratiche commerciali scorrette, oltre al quasi-monopolio mondiale in alcuni settori industriali, la Cina è anche una straordinaria potenza finanziaria. Dal 2000 al 2016, ad esempio, sono stati investiti in Europa 110 miliardi di euro e a beneficiarne sono stati un po' tutti, Italia compresa: negli ultimi 7 anni sono stati investiti in Italia 10 miliardi di euro e, alla fine del 2016, oltre 450 società italiane avevano tra i soci capitali cinesi: da grandi realtà industriali alle squadre di calcio.
Ma una quota significativa degli investimenti cinesi in Europa è andata anche ai paesi dell'Est. In Ungheria le imprese cinesi hanno investito quasi 2 miliardi; 742 milioni in Romania e poco meno di mezzo miliardo in Polonia.
Gran parte degli investimenti nell'Est sono serviti a rendere più efficienti le infrastrutture locali, come le tratte ferroviarie che attraversano i Balcani. Motivo? Così il made in China, che arriva in Grecia via mare, potrà arrivare sui mercati dei Paesi dell'Europa occidentale più in fretta e a minor costo.
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