La tv, il ’68 e Cristo. I versi inediti del moralista corsaro

L'autobiografia di Fabrizio De André, "coniglio individualista". Foto, aforismi e riflessioni mai pubblicate di un "Faber" a tutto tondo nel volume "Una goccia di splendore"

La tv, il ’68 e Cristo. I versi inediti del moralista corsaro

Eccolo qui, il Faber. Legge un giornale sdraiato sul letto, pigro eppure instancabile come il «Kerouac sedentario» che ammetteva di essere: «Si può vivere on the road anche stando in poltrona», spiegava. Ché l’ozio è una bellissima occupazione, se sbriglia la mente per il mondo e oltre, tra l’utopia e il sogno. Accanto a lui, sul copriletto, vedo oggetti che felicemente lo rappresentano: una chitarra, un libro su Alessandro Magnasco, gran pittore ligure di età barocca, un altro di astrologia, un terzo di Alvaro Mutis, altri ancora di Lucrezio e di Epitteto. E infine, bell’e aperta, una pagina del Giornale. Era uscita nel settembre del ’96, lui aveva appena pubblicato Anime salve, l’avevo scritta io e portava, opera di Caterina Soffici, un titolo che ancora mi commuove, «De André, la dolce voce dell’anarchia». La foto è di Guido Harari, uno dei pochi il cui obbiettivo non irritasse il Faber, e apre Fabrizio De André, una goccia di splendore, «autobiografia per parole e immagini» edita splendidamente dalla Rizzoli a cura dello stesso Harari. Che, col supporto amorosissimo di Dori Ghezzi, prefatrice con Beppe Grillo, e della Fondazione De André, vi ha stipato centinaia di foto sue e di altri, quasi tutte d’assoluta bellezza, nonché aforismi e riflessioni dello stesso Fabrizio, in parte inediti così da svelare un De André più inatteso e complesso.

Un De André, per esempio, che in un testo mai musicato si dice capace di «darvi maltempo e beltempo, stupori/ e spaventi». Che vocato alla solitudine, da «coniglio individualista, apolitico, senza gregge né legge», la descrive feconda perché ricca «di letture, di meditazioni e di confronti con la memoria». Che si conferma restio alla tivù «dove troppi asini sentenziano su cose che non sanno», e racconta il «suo» Sessantotto, perdente pur nelle sue vittorie, ché poi «la libertà sessuale è stata frantumata dall’Aids e quella d’informazione dai maneggi dei grandi editori». Un De André incline alla spiritualità come spesso accade agli agnostici, e infatti «mi piacerebbe tanto che Dio ci fosse, del resto un giorno Nietzsche ci disse che Dio è morto, e io rispondo: però c’è rimasto Cristo». Cristo «il filosofo anarchico, il poeta dell’amore» raccontato con grato affetto in Si chiamava Gesù, ignorata dalla Rai e trasmessa dalla Radio Vaticana.

Si parte dal Fabrizio bambino: discolo quanto ci si aspetta da un futuro artista, figlio d’un ricercato dai fascisti e nipote d’un deportato dai nazisti, dai racconti del quale scaturirà La guerra di Piero. Quindi l’amore per i libri, ché hanno «avuto la funzione del nonno che non ho mai avuto: mi occorreva qualcuno che mi raccontasse della storie». Se poi la letteratura s’affianca alla musica nasce spesso un autore di canzoni, ma talvolta un poeta: accadeva già, rivendica Fabrizio, con Saffo, Esiodo, Poliziano, gli stilnovisti e i trovatori, dalla cui Provenza viene d’altronde la famiglia De André. Gente che sposava le parole e le note ignorando le norme meschine del mercato. E proprio la refrattarietà a queste norme aiuta a fare di Fabrizio un poeta senza mai scivoloni né ombre. Amato per aver saputo - meglio di ogni altro poeta in musica, Dylan a parte - emozionarci senza esimersi dal farci pensare. E innamorandoci pur praticando poco o nulla la canzone d’amore, ché per quella «è come fare il prete, ci vuole la vocazione».

Chiosa dunque Harari: «Ci ha sempre parlato di umanità di scarto, di declino civile, di caduta verticale dell’etica in una società assuefatta all’ipertrofia delle sue disuguaglianze». E lui, De André: «La ragionevolezza e la convivenza civile autentica si trovano più tra i perdenti che tra i potenti». Tant’è che si dipinge «innamorato dei topi e dei piccioni», allenato al rispetto per le diversità fin dalle prime letture: Villon, Baudelaire, Rimbaud, Verlaine, Bakunin, Stirner, Malatesta. Fino a scoprire che tutto questo poteva divenire oggetto di canzoni, d’altronde «è bello che dove finiscono le mie dita/ debba in qualche modo cominciare una chitarra».

Ed ecco la star suo malgrado, il mito involontario, il sobillatore di coscienze. Il moralista corsaro, convinto che «la virtù mi interessa di meno: non va migliorata, mentre il vizio si può migliorare».

E che il bene e il male non abitano mai su sponde opposte: si riprometteva di dirlo in una canzone mai scritta, dove Pierre l’Ermite si rivolge alla gente col piglio di Göbbels e ai suoi lati ha un angelo, però cattivissimo, e un diavolo, ma d’assoluto buon cuore.

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