Ufficiale: il vertice sul clima è un fallimento

Come già si era previsto, il meeting di Copenaghen è vicino al fallimento. Organizzato per fissare regole che limitino il consumo di CO2 e quindi, nelle intenzioni dei promotori, rallentino la crescita della temperatura globale, il vertice sembra dirigersi verso un binario morto dopo che la Cina, senza troppi giri di parole, ha dichiarato di avere difficoltà ad immaginare un’intesa. Con la defezione di Pechino, anche l’America ha problemi a seguire l’Europa, da tempo alla testa di quanti vorrebbero dare un taglio netto alle produzioni industriali.
La posizione dei cinesi è comprensibile. Pechino giudica assurdo che chi fino a ieri è cresciuto senza porre alcun limite alla propria capacità produttiva oggi voglia bloccare le economie più povere. Va anche detto che per tanta parte del Terzo Mondo l'improvvisa attenzione occidentale al global warming è figlia della volontà di evitare nuovi concorrenti, più che di una sincera preoccupazione per il destino della terra.
Forse le cose non sono esattamente così e tanto in Europa come in Nord America molti sono davvero preoccupati per la crescita della temperatura globale. Non si può dire che l’ecologismo sia il semplice paravento di interessi protezionistici, ma è egualmente evidente che da tempo in Occidente sta crescendo un sentimento di chiusura nei riguardi del commercio internazionale, un sempre più vasto timore verso le «nuove tigri», un autentico risentimento contro chi sta abbandonando la povertà e inizia a competere con le nostre imprese. La pretesa di imporre, anche se in via progressiva, identici standard produttivi di carattere ambientale alle aziende di tutto il pianeta risponde pure a questa esigenza.
Molti commentatori in Occidente denunciano il cosiddetto «dumping sociale» dei Paesi emergenti (dove certo i lavoratori sono pagati molto meno che da noi) e per giunta si moltiplicano norme volte ad alzare barriere di fronte alla circolazione dei beni. Per questa ragione non è sorprendente se poi - in Cina come in Africa - vi è chi vede nei progetti sul tappeto a Copenaghen i prodromi di un neo-imperialismo in salsa verde. Perché le economie che solo ora stanno uscendo da millenni di povertà rivendicano il diritto a fare quello che in passato abbiamo fatto noi: e non è facile dar loro torto.
Come ha scritto sul periodico sudafricano Business Day l'intellettuale nigeriano Thompson Ayodele, i gruppi ambientalisti occidentali «minacciano di soffocare le aspirazioni di milioni di poveri dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina». Egli sottolinea anche come la mobilitazione ecologista contro la deforestazione proprio in questi giorni abbia ottenuto un successo significativo, «bloccando una multinazionale come l’Unilever dall’acquistare olio di palma da un produttore dell’emisfero sud»: ciò «non proteggerà l’ambiente, ma farà perdere il posto a migliaia di poveri lavoratori».
Per Ayodele la vittoria di Greenpeace è però solo l'inizio, dato che a suo parere i gruppi dell'ecologismo radicale sperano di usare Copenaghen per mettere fuori legge ovunque gli oli vegetali dei Paesi in via di sviluppo: «Essi nascondono i loro sforzi protezionisti sotto una maschera di urgenza ambientalista, ma il risultato è lo stesso». Vista dal sud del mondo, la retorica del politicamente corretto è quindi solo un mix di cinismo e buone intenzioni.


Vale anche la pena di domandarsi se le conseguenze di un innalzamento climatico dell'ordine di una frazione di grado siano peggiori di quelle del mancato sviluppo della maggior parte dell'umanità. Sembra che i cinesi, da parte loro, una risposta l'abbiano già data.

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