UNIONE DI COMODO

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«Prodi sulla scia di Zapatero» ha titolato ieri il Giornale, riferendosi alla lettera da Prodi stesso inviata a Franco Grillini, presidente onorario dell’Arcigay, per dargli assicurazioni su un futuro riconoscimento giuridico delle coppie di fatto: termine questo che nella interpretazione datagli dai movimenti che hanno apprezzato la svolta spagnola, deve includere, non implicitamente ma esplicitamente, le coppie omosessuali. Ma Prodi non è Zapatero, non lo è per il suo Dna democristiano, e per il suo modo di affrontare problemi in cui le concezioni di una nuova etica si scontrano con valori consolidati della tradizione e con i dettami della fede. Il Professore tenta di conciliare il diavolo e l’acquasanta, si ispira a Zapatero - se non altro perché gli fanno gola i molti elettori che questo tipo di aperture procurerebbero - ma senza la risolutezza e diciamo pure la lealtà di Zapatero.
Prodi sapeva di inoltrarsi, con il messaggio benevolo a Grillini, su un terreno minato: perché, nonostante i cambiamenti - alcuni dei quali condivisibili - che nella società sono avvenuti, la maggioranza degli italiani considera il matrimonio un istituto solenne e non assimilabile a convivenze del tutto legittime, degne di rispetto, ma di livello - e vogliamo usare il termine senza alcuna sottolineatura spregiativa - inferiore. Non fosse altro che per le certezze che il matrimonio sancisce, ad esempio nello stabilire l’inizio e la fine di un legame. Posso anche credere che Prodi sia intimamente lacerato, in proposito, da angosce e ambiguità. Le une e le altre riguardano anzitutto i suoi principi. Gli è già capitato di trascurarle, ad esempio sull’economia, che dovrebbe essere la sua partita. Nel 1994 riconobbe la bontà della riforma pensionistica berlusconiana, espresse rammarico perché non era giunta a buon fine. Ma poi ci ha ripensato. Qui si tratta di ben altro, ma il dilemma è in fondo analogo. Da una parte i principi, dall’altra l’opportunità politica. Il terreno che Prodi sta percorrendo è minato anche e soprattutto per le deflagrazioni politiche che possono derivarne. Infatti i settori cattolici del centrosinistra sono già in allarme, e voci autorevoli hanno posto dei grossi ostacoli alla china sdrucciolevole su cui Prodi pare incamminato. Un ulteriore motivo di diatriba si sta così aggiungendo ai tanti, ai troppi che caratterizzano l’opposizione. Il cui compito, lo sappiamo tutti, è assai più agevole del compito della maggioranza, costretta a fare là dove l’opposizione può permettersi il lusso di parlare e accusare soltanto. Si obietterà che la maggioranza non brilla, a sua volta, per compattezza. È vero. Ma le divisioni del centrodestra attengono più specificamente alle prospettive elettorali - sempre con un occhio ai famosi e famigerati sondaggi - e alla leadership. Problemi di gerarchia nell’alleanza o di caccia al voto più che di autentica diversità nei contenuti programmatici. In realtà per quanto concerne le massime direttrici la maggioranza è, pur con tutti i suoi deplorevoli litigi e le sue colpe, abbastanza coesa, ha una piattaforma di valori che da nessuno viene negata.
Non è così per il centrosinistra. Che vuole impadronirsi di Palazzo Chigi, ma una volta conquistatolo potrebbe sentirsi chiedere - come se lo sentì chiedere Pajetta da Togliatti dopo la presa della Prefettura di Milano nel 1947 - e adesso che cosa ve ne fate? Già, perché questa futura maggioranza, che dovrebbe elaborare leggi concordi, è ai ferri corti per le coppie di fatto, per la procreazione assistita, per la tassazione del risparmio, per il ritiro delle truppe dall’Irak, per la gestione delle opere pubbliche (con settori addirittura vicini ai no global e alla loro irruzione nei cantieri del Mose a Venezia).

Cosa riuscirebbero a fare un governo e una maggioranza in queste condizioni? La loro vocazione sembra la paralisi generata da spinte opposte e polemiche continue. Non è una buona prospettiva. Lo diciamo senza fare sconti agli errori del centrodestra. Ma tra lo sbagliare nel fare e il rinunciare a fare perché su ogni punto si litiga c’è differenza.

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