Un meridionale prima patriota entusiasta e poi osservatore disincantato dell'Italia unita, ma soprattutto un intellettuale prestato all'amministrazione dello Stato. Questo in sintesi fu Giacomo Racioppi, il cui profilo è stato pubblicato, nell'ambito dell'iniziativa voluta dal ministro Renato Brunetta per ricordare i migliori 150 «civil servant» in occasione del 150° anniversario dell'Unità, nel sito del ministero per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione quantenario-dellunita-ditalia/al-servizio-dei-cittadini.aspx). Con questo riconoscimento il lucano Racioppi, nato a Moliterno (Potenza) il 21 maggio del 1827, entra dunque fra i grandi ma poco conosciuti italiani (e italiane) che nel corso della storia unitaria del nostro Paese hanno dedicato la propria vita al servizio della collettività in tutti i rami della pubblica amministrazione: a livello centrale e a livello locale, nei ministeri e negli Enti, nelle varie articolazioni della magistratura e delle forze dell'ordine, nelle aule scolastiche e universitarie, nelle strutture sanitarie, nei musei e nelle istituzioni culturali.
Figlio di Francesco, patriota, giurista e giudice di paceofessore privato di giurisprudenza, Giacomo Racioppi si trasferì a cinque anni di età a Napoli, presso lo zio abate Antonio Racioppi, professore di Letteratura italiana e latina presso il Collegio del Salvatore di Napoli. Il 22 febbraio 1849 viene arrestato per aver preso parte al movimento antiborbonico (è sospettato di essere iscritto alla Giovine Italia) e quindi incarcerato, senza un regolare processo, nella prigione di Santa Maria Apparente. Qui entra in contatto con altri patrioti e intellettuali vittime della repressione borbonica (tra i quali Luigi Settembrini, Antonio Scialoja e Michele Pironti), grazie ai quali riesce a sviluppare i suoi interessi in economia. Liberato il 7 giugno 1853 grazie all'intercessione dello zio, torna a Moliterno e per sette anni prosegue gli studi storico-letterari, senza però rinunciare alla cospirazione patriottica. Nel 1860 partecipa da protagonista al processo di unificazione nazionale (ricoprendo un ruolo nella Giunta centrale di amministrazione, a fianco del governatore di Potenza Giacinto Albini) ed è fra i promotori del plebiscito di annessione al Regno sabaudo. Nominato segretario prefettizio a Potenza e poi a Napoli, si dimette dall'incarico il 3 settembre 1863 per contrasti con il prefetto Rodolfo D'Afflitto. Ottenuta l'aspettativa, torna nella sua Val d'Agri e per circa dieci anni a Moliterno si dedica agli studi di ricerca letteraria, storica ed economica secondo un eclettismo scientifico che lo avvicinava al movimento romantico di stampo idealistico di fine secolo. Durante questa fase di allontanamento dalla vita pubblica, alla quale non sembrano estranee la disillusione verso il nuovo Stato nazionale e la critica al suo scarso impegno a favore del Meridione, scrive diverse opere. Tra queste spicca senz'altro la «Storia dei moti di Basilicata e delle province contermini nel 1860» (1867), nella quale la ricostruzione storica degli avvenimenti si sposa con la ricerca delle cause economico-sociali all'origine dell'insurrezione delle popolazioni meridionali contro i Borboni (le stesse che in quel periodo alimentano il brigantaggio).
Torna all'impegno politico nel 1871, trasferendosi a Roma e divenendo capo della direzione generale di Statistica ed Economato presso il Ministero dell'Agricoltura, dell'Industria e del Commercio in sostituzione del defunto Pietro Maestri, fondatore della statistica italiana. Nel 1876 viene nominato direttore generale dell'Economato e nel 1894 consigliere governativo dell'amministrazione del Banco di Napoli. Dal 1896 assume le funzioni di consigliere di Stato.
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