Articoli sul Foglio e sul Sole 24Ore, intervista-libro con Paolo Guzzanti, conferenze alla London School of Economics, Carlo De Benedetti appare in preda a un’ansia di comunicare non più soddisfatta dal ruolo istituzionale di editore di Repubblica ed Espresso. Sembra quasi di vedere un’ombra di disperazione in chi è stato uno dei protagonisti, più o meno occulto, della scena italiana e teme di scomparire. Già il figlio Rodolfo ne ha ridimensionato il peso nelle attività industriali del gruppo. E soprattutto in campo finanziario - il vero settore in cui De Benedetti si è sempre sentito a suo agio e dove ha potuto esercitare la scatenata vocazione di scorridore - le difficoltà (vedi casi Coppola e Bim) dello storico alleato rappresentato dalla famiglia Segre, lo hanno costretto a mille pasticci e figuracce innanzitutto nella lotta per la sistemazione e il controllo della sua Management & capitali.
E ora si profila il rischio anche di un appannamento del ruolo di grande ispiratore della politica italiana. Le recenti elezioni regionali hanno testimoniato come la campagna iniziata dai media debenedettiani nel luglio 2008 con la gonfiatura davanziana dello scandalo delle sexy-telefonate berlusconiane, proseguita con il caso Noemi, con quello D’Addario, con il lodo Mondadori e con la bocciatura del lodo Alfano, sia finita in un vicolo cieco. Avrà magari convinto qualche autorevole politicante del centrodestra ma non il popolo. E i risultati si vedono: Antonio Di Pietro corre a cercare accordi con Roberto Calderoli, Michele Santoro all’azione preferisce la liquidazione. E soprattutto Magistratura democratica, d’intesa più o meno concordata con l’antico ispiratore Luciano Violante, vuole trattare la via per chiudere la quasi ventennale guerra tra toghe ed eletti del popolo.
Non solo non si apre il post-Berlusconi ma il Pd è finito sotto l’influenza di un poco simpatetico Massimo D’Alema, i giustizialisti con il Fatto che tira tra le 60 e le 80mila copie diventano man mano indipendenti da Largo Fochetti. Romano Prodi non appare disponibile a recuperare i rapporti con un De Benedetti che liquidò il suo governo scendendo in campo a favore di Walter Veltroni. E la lista dei danni non finisce qui. Fatto grave è anche che il più importante ispiratore di Prodi e oggi pure uomo decisivo degli equilibri dell’establishment finanziario, Giovanni Bazoli, con cui De Benedetti ha interloquito fruttuosamente per anni, non gli ha perdonato certe manovre sul caso Zaleski. E proprio questo Bazoli sta lavorando per un accordo di sistema con il centrodestra. Ai margini della finanza, non solo impossibilitato a dare una spallata al governo ma anche senza più una salda presa sulla sinistra, il presidente della Cir è in affanno: e lo si vede sia dalla linea sonnacchiosa di Repubblica sia dalla stessa eccitazione dichiaratoria dell’Ingegnere. Sulle prime l’idea del già poco riuscito mago di Ivrea è stata quella di lavorare per un rilancio del proporzionalismo, una deriva «tedesca» del sistema elettorale che consentisse all’influenza di Repubblica di pesare di nuovo in un sistema di partiti frastagliato. Ma l’operazione è fallita perché da una parte i cavalli su cui aveva puntato De Benedetti (Francesco Rutelli e Bruno Tabacci) non sono neanche partiti, dall’altra Pier Ferdinando Casini e Luca Cordero di Montezemolo (che hanno le proprie sponde mediatiche e non devono pietire spazi a Largo Fochetti) tutto faranno nella loro vita tranne che mettersi in mani debenedettiane.
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