Una valigia piena di snobismo

Finiremo mai di entusiasmarci ogni volta che leggiamo Evelyn Waugh? Non tanto il Waugh forse più noto, come quello di Ritorno a Brideshed (1945), dove la naturale dimensione comico-satirica pare soverchiata da una nostalgia di cattolicesimo elitario inglese, amaro e astratto; né il Waugh del troppo hollywoodiano, cioè poco waughiano, Caro estinto (1948), la cui idea nacque quando nel ’47, invitato dalla Mgm a recarsi in America per discutere il copione di una versione cinematografica di Brideshed (che non si fece), egli era rimasto colpito dalle cerimonie funerarie di Forest Lawn, coi suoi Sentieri Melodiosi.
No, alla fine, i libri migliori di Waugh siamo indotti a pensare che si trovino tra i suoi primi: Decline and Fall, in Italia noto come Lady Margot (1928), Corpi vili (1930), Una manciata di polvere (1933), L’inviato speciale (1938). Ma gemme del suo umorismo e della sua caustica satira sociale si trovano anche nei cinque libri di viaggio scritti nel frattempo, e sui quali l’autore, operando tagli impietosi sui testi delle edizioni originarie, produsse dopo la guerra una sorta d’antologia, Quando viaggiare era un piacere, uscito qualche tempo fa da Adelphi, che ora pubblica integralmente il primo e più esilarante di quei libri di viaggio, Etichette (pagg. 228, euro 18).
È l’autore che racconta in prima persona le circostanze della sua partenza. Nel febbraio del ’29, Londra era sorda e senza vita, quasi regolasse il suo umore su Westminster, dove il governo tirava avanti alla meglio. Stavano arrivando i primi film col sonoro, «che riportavano indietro di vent’anni l’unica arte vitale del secolo». Non c’era neppure un bel caso truce di cronaca nera. Faceva un freddo cane. Il libro più venduto era Orlando di Virginia Woolf. In quei giorni il tempo era tale che ci si ritraeva inorriditi dal gelido contatto dei bicchieri dei cocktail, come la duchessa di Amalfi dalla mano del morto. Insomma, Waugh mise nelle valigie tutti i suoi vestiti, il necessario per disegnare, qualche libro di grave momento come Il tramonto dell’Occidente di Spengler, e nel bel campo erboso di Croydon salì su un grosso aereo tutto inclinato all’indietro, con le poltroncine di vimini, i finestrini troppo scorrevoli per le vibrazioni, e un «simpatico gabinettino» sul fondo, e partì per Parigi, insieme ad altri viaggiatori tra cui una pendolare donna d’affari con la sola valigetta da attaché al seguito e che fece fitti conti per tutto il tragitto.
Parigi rappresentava solo una sosta di qualche giorno, il tempo di riempirsi di malumore per contrattare sui prezzi alle concierges di vari alberghi, di litigare coi tassisti per non essere considerato un babbeo, di guardare esterrefatti i riti dei turisti americani, di andare per mostre e locali notturni, le cui donnine, che avevi trovato là, le ritrovavi poi in servizio qua, e soprattutto di riflettere in generale su quel senso di bogus, di fasullo, che a Waugh pareva Parigi diffondesse a piene mani. L’ultima tappa, terrestre, dopo un viaggio ferroviario notturno degno di Wodehouse se fosse stato capace di astio, era Montecarlo, singolarmente nevosa, dove il nostro si sarebbe imbarcato sulla «Stella Polaris», alla volta di Napoli, Messina, Catania, Malta, Port Said, Haifa, Istanbul, Atene, Corfù, Ragusa, Venezia.
Inutile dire che, a pari merito dei luoghi e delle situazioni, sono le persone a colpire maggiormente l’immaginazione di Waugh, e a dargli materia per creare quello straordinario teatro narrato che sono i suoi dialoghi e le sue scenette. Così, se nella vita di bordo, con i giochi sul ponte, le cene, le feste e le «fraternizzazioni», abbiamo il repertorio completo dei tic umani più esemplari o più bizzarri, nelle escursioni a terra non sono tanto le descrizioni di porti e piazze, di vicoli e muri di case, di bazar e bagni turchi, di cammelli e tramonti, a far presa sul lettore, quanto gli incontri e la gente.
Per darne un’idea, basterà citare un sito per tutti, Napoli. Qui, a ogni piè sospinto pareva che il vetturino o il tassista sapesse solo proporre di andare a vedere le «danze pompeiane, tutte ballerine nude, artistico assai, molto zozzo, molto francese». No, diceva lui, e magari chiedeva di portarlo al duomo. Il vetturino faceva spallucce, corsa otto lire, supplemento trentacinque, difficile discutere e chieder ragioni. «Il duomo era pieno di fedeli. Uno interruppe le sue preghiere e mi si accostò. “Dopo la messa, vulite vedere danze pompeiane?”. Scossi la testa con distacco protestante. “Belle ragazze?”. Guardai altrove. Quello alzò le spalle, si segnò, e ricadde nella devozione».
Ancora a Napoli, alla cappella Sansevero, dopo aver ammirato l’iperrealistico drappeggio marmoreo de La Pudicizia di Antonio Corradini, la bambina scalza che era venuta con un mazzo di chiavi ad aprire la cappella, accese una candela e con volto illuminato da schietto entusiasmo gl’indicò una porticina invitandolo a scendere in una minuscola cripta con un forte odore di putrefazione: erano cadaveri esumati e parzialmente mummificati, un uomo e una donna, l’«uomo squarciato rivelava un groviglio di polmoni e organi digestivi rinsecchiti. Alzata la candela, la bambina ficcò la faccia quasi dentro quello squarcio e inspirò profondamente e con gusto. “Sa di buono. Bello”. Risalimmo in chiesa. Le domandai di quei cadaveri. “Sono opera del prete” disse».
È forse l’unico passo, in tutta l’opera di Waugh, in cui il grottesco s’incrocia col macabro, e non a caso forse, visto che coinvolgeva una rappresentante di una delle categorie umane a lui più invise: i bambini. Non era l’unica cosa a renderlo odioso. Avremmo potuto infatti cominciare il nostro discorso chiedendoci: finiremo mai di irritarci pensando a Evelyn Waugh?, alla commistione tra biografia e scrittura, tra personalità intima (con le sue patologie) ed esito letterario? Ma, se Dio vuole, questo si produce in lui con tale spocchia e schiettezza, senza alcun filtro, infingimento e Doppel-gänger, da renderlo odiosamente simpatico. Era uno snob, stizzosetto e insofferente. Fece un primo matrimonio, e sua moglie pensò bene di scappare con un loro amico. Nel secondo, più duraturo, ebbe sei figli, che non sopportava. Negli ultimi due anni, in cui appariva, più che grasso, gonfio di livore, era preso da allucinazioni ricorrenti.
Quando, nell’aprile 1966, sessantatreenne, morì all’improvviso, a ucciderlo furono forse, oltre alle dosi massicce di alcol, la sua amarezza di fondo, piena di saputaggine acrimoniosa e insolente, il ribrezzo perenne al sentir parlare con accento, non tanto plebeo, ma middle-class. Figlio di un saggista letterario nonché direttore della Chapman and Hall, aveva compiuto mediocremente i suoi studi a Oxford, scontento per non aver ottenuto o il primo o l’ultimissimo grado di laurea con la sua tesi sui Preraffaelliti; aveva attraversato la fase di «omosessualità estrema», per usare le sue parole, come uno potrebbe dire sci estremo o paracadutismo estremo; s’era dedicato alla grafica e all’incisione; aveva tentato di suicidarsi in mare cambiando idea sul più bello a causa delle fastidiose meduse, e infine s’era dato al giornalismo.
Mai, a parte Thackeray, i confini tra giornalismo e letteratura si sono intrecciati tanto proficuamente come in Waugh.

Egli visse, insieme da protagonista e da testimone, i bagordi e le stravaganze dei roaring twenties; il suo snobismo non dipendeva da una seduzione imitativa delle classi alte che frequentava, era piuttosto un surclassamento iperbolico dei loro eccessi e manierismi; la sua stessa conversione al cattolicesimo sembrava derivare più da un bisogno di ritualità antica e da una nostalgia di nobiltà addirittura anteriore a quella dei nobili attuali di cui registrava la risibile decadenza e vacuità. Con lui, un ulteriore gradino di dignità letteraria veniva conferito allo humour inglese, dopo quello bonario di Jerome e quello demenziale di Wodehouse, aggiungendogli quel po’ di fiele che mancava.

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